Omicidio volontario: chi uccide non fa neanche un anno di carcere

La metà dei delitti restano impuniti. I dati drammatici dell'Istituto Ires: in Italia uccidere non è un reato davvero punito. Anche per questo ci sono tanti femminicidi

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In Italia l’omicidio volontario è sinonimo di impunità. Uccidi una persona, di solito una donna, e tra prescrizione, processi-lumaca, buona condotta e cavilli vari, c’è sempre un modo per cavarsela. Mentre in carcere marciscono, nell’indifferenza generale, migliaia di persone per reati assolutamente secondari, gente che potrebbe scontare la pena ai domiciliari, i veri assassini in galera non ci vanno. E quando capita, ci restano molto poco. Come al solito, le pene previste dalla legge, sulla carta, sono severissime, e vanno da un minimo di 21 anni all’ergastolo. Sulla carta, però. Nella realtà, come dimostrano i dati di un’approfondita ricerca dell’Ires (Istituti di ricerche economiche e sociali), confermati da diversi episodi di cronaca, la certezza della pena non esiste. Uno sconto molto pesante. Stefano Parolisi, ex caporalmaggiore, ha ottenuto un’abbondante riduzione della pena, da 30 a 20 anni, per l’omicidio della moglie Melania Rea con 36 coltellate: il ricalcolo è stato fatto dalla Corte d’Appello di Perugia dopo la precedente condanna con rito abbreviato. E l’assassino ha beneficiato dello sconto in quanto, secondo i giudici, il reato non sarebbe stato commesso con evidente crudeltà. Ma il caso Parolisi non è isolato e in Italia, dove un delitto su due resta completamente impunito, i magistrati mostrano di avere la manica larga quando si tratta di mettere sul tavolo ricalcoli, attenuanti, riduzioni di pena, per i colpevoli di omicidio accertati da sentenze passate in giudicato.

La durata media della pena per omicidio volontario in Italia

L’istituto di ricerche Ires, in uno studio sugli omicidi in Italia, ha fatto i calcoli su quanto in realtà si sconta in carcere nei casi più gravi. E i risultati sono sconcertanti. La durata media della pena, per l’omicidio volontario, è di 12,4 anni, a fronte di un codice che prevede una carcerazione da 21 anni all’ergastolo. Per l’omicidio preterintenzionale, invece, la pena media scende a 8,8 anni, mentre la legge parla di pene da 10 a 28 anni di detenzione. Questi numeri non tengono conto, poi, del regime di semilibertà e di eventuali altri sconti. Piero Maso, nell’aprile del 1991, massacrò i genitori Rosa e Antonio per incassare la loro eredità e, dopo la confessione, venne condannato a 30 anni di galera. Ma andò in semilibertà già nel 2008 per poi uscire completamente cinque anni dopo. Mario Alessi, l’assassino del piccolo Tommy Onofri, un bambino di 17 mesi ucciso a colpi di badile durante un sequestro a scopo di estorsione, è stato condannato all’ergastolo, con sentenza confermata dalla Cassazione nel 2010, e appena qualche anno dopo dopo è tornato in libertà grazie ai permessi consentiti dalla legge. Lavora come fabbro e giardiniere. Erika De Nardo uccise, con la complicità del fidanzato Omar Favaro, la madre Susi Cassini e il fratellino undicenne, Gianluca, con 54 fendenti. I due killer furono condannati a 16 anni di reclusione, ma sono usciti dal carcere già dieci anni dopo la sentenza, grazie all’indulto e alla buona condotta.

Parziale impunità in caso di omicidio volontario

Anche per questo i femminicidi in Italia restano reati poco perseguiti e ancora meno denunciati. La parziale impunità, certificata dalle statistiche, riguarda una fattispecie di reati ancora molto diffusa: siamo infatti a circa 600 omicidi l’anno, un terzo dei quali avviene nell’ambito familiare (le donne sono le vittime nel 61 per cento dei casi) come nel delitto commesso da Parolisi,  e nel 65 per cento dei casi c’è la premeditazione. In pratica l’Italia degli omicidi, secondo l’Ires, è divisa in tre parti: nel Nord si concentrano la maggioranza dei casi dei delitti maturati in ambito familiare, nel Centro prevalgono gli episodi di criminalità comune, nel Sud dominano i delitti alimentati dai clan della malavita organizzata. Fin qui i reati, quanto alle pene agli sconti previsti già in primo grado quando si accetta il rito abbreviato oppure vengono riconosciute alcune attenuanti e negate le aggravanti, si somma un fenomeno molto singolare: la minore severità dei giudici in appello. «In effetti le nostre indagini statistiche, molto rigorose, ci dicono che agli sconti che nascono da questioni tecniche e procedurali si sommano, ex post, quelli in appello. Come si spiega? Il processo di primo grado è molto influenzato dalla pressione mediatica che purtroppo condiziona i giudici, mentre in secondo grado si spengono i riflettori di stampa e televisione e le pene si attenuano» spiega Fabio Piacentini,  presidente di Ires e coordinatore degli studi sugli omicidi in Italia. E aggiunge: «Il rischio è di passare dalla redenzione, che pure è giusto premiare, a una sorta di automatismo difficile da giustificare dal punto di vista giuridico. E da qui il passo a una parziale impunità è molto breve…».

La prescrizione per omicidio volontario

Infine, anche sugli omicidi volontari aleggia lo spettro della prescrizione, la parola magica che rende in Italia del tutto aleatoria la certezza della pena. Il caso più clamoroso è quello di Giulio Cesare Morrone. Lui è un imprenditore di Pescara, molto vivace, con la passione per il culturismo, che nel 1990 denuncia la scomparsa della moglie, Teresa Bettega. Passano 22 anni senza che le indagini riescano ad accertare un colpevole, fino a quando spunta un testimone che accusa il marito della donna per l’omicidio. In un primo momento Morrone nega tutto, e poi, interrogatorio dopo interrogatorio, confessa: «E’ vero, l’ho strangolata e gettata nel fiume». A quel punto l’uomo viene giudicato con un rito abbreviato e condannato a 16 anni di reclusione, ma la resta un pezzo di carta con la sentenza di un tribunale perché non essendo stata riconosciuta l’aggravante dei futili motivi, è scattata la prescrizione. E Mormone, dopo avere ucciso la moglie con premeditazione,  non ha fatto neanche un’ora di carcere.

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