di Stefano Zamagni www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum
I principi dell’economia di mercato
Dall’avvento dell’economia di mercato in poi – e cioè a partire grosso modo dall’Umanesimo ci vile, epoca in cui prende avvio in forma compiuta quel modello di ordine sociale che è appunto l’economia di mercato – è lo scambio a consentire una grande diversità genetica nelle popolazioni umane. Ma occorre ricordare che ai suoi inizi l’economia di mercato viene fondata non solamente sul principio dello scambio di equivalenti (di valore) e su quello redistributivo, ma anche sul principio di reciprocità. È con lo scoppio della Rivoluzione industriale, e quindi con l’affermazione piena del sistema capitalistico, che il principio di reciprocità si perde per strada; addirittura viene bandito dal lessico economico.1 Con la modernità si afferma così l’idea secondo la quale un ordine sociale può reggersi solamente sugli altri due principi. Di qui il modello dicotomico Stato-mercato: al mercato si chiede l’efficienza, cioè di produrre quanta più ricchezza può, stante il vincolo delle risorse e lo stato delle conoscenze tecnologiche; allo Stato, invece, spetta il compito primario di provvedere alla redistribuzione di quella ricchezza per garantire livelli socialmente accettabili di equità.
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Si pensi, per considerare un solo esempio, all’ampio dibattito, ancora lungi dall’essere concluso, sul “big trade-off” – per richiamare il titolo del celebre libro di Arthur Okun del 1975 – tra efficienza ed equità (o giustizia distributiva). È preferibile favorire l’una o l’altra? Vale a dire: è meglio dilatare lo spazio di azione del principio dello scambio di equivalenti, che mira appunto all’efficienza, oppure attribuire più poteri di intervento allo Stato affinché questi migliori la distribuzione del reddito? Ancora: a quanta efficienza si deve rinunciare per migliorare i risultati sul fronte dell’equità? E così via.
Interrogativi del genere hanno riempito (e riempiono) le agende di studio di schiere di economisti e di scienziati sociali, con risultati pratici piuttosto modesti, a dire il vero. La ragione principale di ciò non risiede certo nella carenza di dati empirici o nell’inadeguatezza degli strumenti di analisi a disposizione. Piuttosto, la ragione è che questa letteratura si è dimenticata del principio di reciprocità, del principio, cioè, il cui fine proprio è quello di tradurre in pratica la cultura della fraternità. Aver dimenticato che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti a una soluzione credibile di quel trade-off. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di gratuità; non è cioè capace di progredire quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate.
Invero, una lettura, anche superficiale, dell’attuale passaggio d’epoca ci obbliga a prendere atto che i tratti antisociali del comportamento economico hanno raggiunto livelli preoccupanti. È ormai ampiamente ammesso che lo “star bene” (well-being) delle persone dipende non solamente dal soddisfacimento dei bisogni materiali, ma anche da quello dei bisogni relazionali. Eppure, di ciò non pare esserci adeguata consapevolezza. Le economie dell’Occidente avanzato sono diventate “macchine” straordinariamente efficienti per soddisfare l’ampia gamma dei bisogni materiali, ma non altrettanto si può dire per quanto attiene ai bisogni relazionali. Essenzialmente la ragione è che questi ultimi non possono essere adeguatamente soddisfatti con beni privati, né con beni pubblici, quali ne siano il volume e la qualità. Piuttosto, essi richiedono beni relazionali, beni cioè la cui utilità per il soggetto che li consuma dipende, oltre che dalle loro caratteristiche intrinseche e oggettive, dalle modalità di fruizione con altri soggetti. Relazionale è il bene che può essere prodotto e fruito soltanto assieme da coloro i quali ne sono, appunto, gli stessi produttori e fruitori mediante le relazioni che li coinvolgono. Amicizia, fiducia, felicità, rapporti familiari sono altrettanti esempi di beni relazionali. Non esiste ancora una consolidata teoria economica dei beni relazionali, il che spiega perché se ne parli così poco. A sua volta, ciò consegue dal fatto che la scienza economica dell’ultimo paio di secoli è stata costruita sulla dicotomia pubblico-privato. I beni privati e i beni pubblici, pur opposti tra loro rispetto agli elementi della rivalità e della escludibilità dal consumo, condividono un tratto comune: quello di non presupporre per il loro consumo un’azione comune, né la conoscenza dell’identità delle persone coinvolte (due o più soggetti possono consumare un bene pubblico – si pensi al classico esempio del faro – in perfetto isolamento tra loro).
Il punto importante che va sottolineato è che la produzione di beni relazionali non può avvenire secondo le regole di produzione dei beni privati, perché nel caso dei beni relazionali non è in gioco solo il problema dell’efficienza, ma anche quello dell’efficacia. Né può avvenire secondo le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato, dal momento che coercizione e principio burocratico – che sono i principi di azione dell’ente pubblico – annullano o neutralizzano la relazionalità. Ecco perché, se si vogliono scongiurare i rischi devastanti di trappole di povertà sociale dovute alla crescita ipertrofica della sfera acquisitiva dell’economia, le nostre società hanno bisogno di far sempre più posto a soggetti economici che fanno della reciprocità il loro modus operandi.
La grande “colpa” del welfare State
Siamo ora in grado di comprendere cosa c’è alla radice del “fallimento” (nel senso di failure) del welfare State. C’è che questo modello si regge su un presupposto fallace; cioè sul presupposto dei due tempi la cui logica è di ascendenza kantiana: «Facciamo la torta più grande e poi ripartiamola con giustizia ». È da qui che discende la ben nota divisione di ruoli: al mercato (capitalistico) si chiede di produrre quanta più ricchezza possibile, dati i vincoli delle risorse e della tecnologia, e senza soverchie preoccupazioni circa il modo in cui questa viene ottenuta (perché “business is business” e “competition is competition” – come a dire che la dimensione etica nulla ha a che vedere con l’agire economico); allo Stato, poi, il compito di provvedere alla redistribuzione secondo un qualche criterio di equità, quale quello di Rawls, di Dworkin, o di altri ancora. Eppure già il grande economista francese Walras, alla fine dell’Ottocento, aveva provveduto a “rispondere” a Kant scrivendo: «Quando porrete mano alla ripartizione della torta non potrete ripartire le ingiustizie commesse per farla più grande».
Il limite veramente notevole del welfare State è dunque quello di accettare, più o meno supinamente, che il mercato capitalistico sia “autorizzato” a seguire appieno la sua logica, salvo poi intervenire post factum, con misure ad hoc dello Stato, per mitigarne gli effetti perversi, lasciando però intatte le cause. Si osservi che il modello dicotomico di ordine sociale Stato-mercato ha prodotto conseguenze nefaste anche a livello culturale, facendo credere a schiere di studiosi e policy makers che l’etica, mentre avrebbe qualcosa da dire per quanto concerne la sfera della distribuzione della ricchezza, nulla c’entrerebbe con la sfera della produzione della stessa, perché quest’ultima sarebbe governata dalle ferree leggi del mercato (mai banalità più grossa è stata scritta o proferita: il mercato, infatti, è esso stesso una costruzione sociale e dunque non può sottostare a leggi ferree).
Aver legittimato politicamente la separazione (e non già la distinzione, il che è ovvio) tra sfera economica e sfera sociale, attribuendo alla prima il compito di produrre ricchezza e alla seconda quello di ridistribuirla è stata la grande “colpa” del welfare State. Perché ha fatto credere che una società democratica potesse progredire tenendo tra loro disgiunti il codice dell’efficienza – che basterebbe a regolare i rapporti entro la sfera dell’economico – e il codice della solidarietà – che presiederebbe invece ai rapporti intersoggettivi entro la sfera del sociale. Donde il paradosso che affligge le nostre società: per un verso, in nome della solidarietà si moltiplicano le prese di posizione a favore di disabili, di poveri di vario tipo, di chi resta indietro nella gara di mercato; per l’altro verso, tutto il sistema di valori (i criteri di valutazione dell’agire individuale, gli stili di vita) è incentrato sull’efficienza, sulla capacità cioè di generare valore aggiunto. Ma un’efficienza separata dalla solidarietà diventa efficientismo; e una solidarietà separata dall’efficienza degenera in assistenzialismo, più o meno paternalistico.
C’è allora da meravigliarsi se oggi le disuguaglianze di vario genere continuano ad aumentare in modo scandaloso e se gli indicatori medi di felicità pubblica registrano diminuzioni costanti? C’è da meravigliarsi se il principio di meritorietà viene confuso (maldestramente) con la meritocrazia, come se si trattasse di sinonimi? (E dire che il primo a scrivere che la meritocrazia è un principio pericoloso per la democrazia fu proprio Aristotele). C’è da meravigliarsi se la reciprocità viene confusa con l’altruismo e se i beni comuni vengono confusi con i beni pubblici?
La crisi fiscale dello Stato e l’allargamento della forbice tra risorse disponibili e ampliamento della gamma dei bisogni – entrambi i fenomeni conseguenza sia della globalizzazione sia della terza rivoluzione industriale, quella delle tecnologie infotelematiche – hanno reso palese a tutti la crisi entropica (e non già congiunturale) del welfare State. Ebbene, è in questo quadro che si spiega la ripresa di interesse verso il modello civile di welfare, un modello che affonda le sue radici, come si è detto, nell’economia civile di mercato e che vede le organizzazioni della società civile (OSC) giocare un ruolo da comprimarie.
Giova osservare che il ruolo comprimario che le OSC sono chiamate a svolgere è condizione necessaria affinché il principio di sussidiarietà possa pienamente esplicarsi. Tale principio, infatti, non solamente esige che lo Stato non faccia ciò che i soggetti della società civile sono in grado di fare, ma anche che il mercato capitalistico non faccia ciò che può fare la reciprocità. Quanto a dire che non solo lo Stato, ma anche il mercato capitalistico può violare il principio di sussidiarietà. Ecco perché è necessario accogliere l’idea di “sussidiarietà circolare”: si tratta cioè di far interagire, in modo sistematico e permanente, i tre vertici del triangolo che rappresenta l’intera società e cioè il vertice che denota la sfera politico-istituzionale, quello della sfera commerciale (business community) e quello della sfera della società civile.
Dal welfare State al welfare civile
Dove conduce questo discorso relativamente a ciò che attiene alla riforma del welfare? Al superamento del modello di welfare mix (che ha ipotecato il dibattito culturale nel corso degli anni Novanta) e all’adozione del welfare civile. Come è noto, il welfare mix si avvale dei “quasi mercati” quale strumento per abbattere gli sprechi, razionalizzare i costi e innalzare il livello di efficienza. Non v’è dubbio che si tratti di un avanzamento importante rispetto al modello statalista di welfare, della cui improponibilità, oggi, sono ormai tutti consapevoli. Il welfare mix poggia sull’idea che il problema più serio da risolvere sia un problema di costi, e quindi che tutto quel che vi sarebbe da fare sul piano politico sarebbe trovare i modi per ottenerne la riduzione. Chiaramente, solo in una società stazionaria (o quasi), in cui fosse possibile predefinire le tipologie dei bisogni che restano più o meno stabili nel tempo e il livello del loro soddisfacimento, ciò potrebbe ritenersi sufficiente. In una società del genere, infatti, le situazioni di permanenza fanno aggio su quelle di passaggio, e dunque sarebbe relativamente agevole prevedere e programmare i flussi di spesa e le modalità di intervento.
Ma in società caratterizzate da una sostenuta dinamica evolutiva per ciò che riguarda l’emergere di nuovi bisogni, nelle quali il meccanismo delle aspettative soggettive sospinge sempre più verso l’alto gli standard qualitativi, e nelle quali le situazioni di transizione (da un luogo all’altro; da una condizione lavorativa all’altra; dal lavoro alla formazione e poi di nuovo al lavoro) sono diventate la norma, una strategia basata sul solo contenimento dei costi e sulla razionalizzazione della spesa sarebbe votata al sicuro insuccesso. In altri termini, se si pensa di far dipendere il soddisfacimento dei bisogni di welfare dei cittadini di una società che progredisce dalle risorse che l’ente pubblico riesce a mettere in campo con la tassazione – sia pure fortemente progressiva – l’esito finale non potrà che essere l’abbandono dell’universalismo in favore di programmi di tipo selettivistico. Ma, come ricordava Titmuss, «un welfare dei poveri è un welfare povero».
Ecco perché è divenuto urgente cambiare la prospettiva del discorso. L’idea centrale è che non solo l’ente pubblico, ma tutta la società deve farsi carico del welfare. E ciò a partire dalla considerazione che i portatori di bisogni sono anche portatori di conoscenze e di risorse. Duplice la conseguenza che deriva da un tale cambiamento. Da un lato, l’ente pubblico non può continuare a pensarsi come unico ed esclusivo titolare del diritto-dovere di erogare servizi di welfare e, specialmente, del potere di definire da solo i modi di soddisfacimento dei bisogni individuali (Keynes che, a differenza di quanto si tende a pensare, non è mai stato uno statalista, parlava a tale proposito di “dipendenza democratica”, per significare che i portatori di bisogni dovevano concorrere con l’ente pubblico al processo di programmazione e produzione delle varie prestazioni). Dall’altro lato, gli enti del Terzo settore devono cessare di rappresentarsi come soggetti del parastato oppure come soggetti solo funzionali alla filantropia d’impresa. Al contrario, essi devono mirare a uno status di completa indipendenza – che è cosa ben diversa dalla separazione – sia dalla sfera pubblica sia da quella del privato commerciale.2
La nozione di “amministrazione condivisa” di cui parlano da qualche tempo Cassese e Arena è essenzialmente questa: l’ente pubblico ceda quote di potere decisionale al Terzo settore in cambio dell’assunzione da parte di quest’ultimo di precise e concordate responsabilità. È utopico pensarlo? Non credo, e per due ragioni principali. In primo luogo, perché i sistemi spontanei di regolazione delle attività a livello locale non sono più sufficienti, oggi, ad assicurare una governance efficace per uno sviluppo sostenibile. Occorrono soggetti che sappiano svolgere la funzione di coordinatori e soprattutto quella di addensatori sociali. È questo il nuovo ruolo specifico dalle OSC: facilitare la creazione di sistemi di partenariato fra soggetti pubblici e privati, profit e non profit. Si pensi allo straordinario successo realizzato, in California, dalla Joint Venture Silicon Valley Network. In secondo luogo, perché le strategie di lotta alla povertà (relativa) nei paesi dell’Occidente avanzato potranno contare sempre meno su strumenti di redistribuzione del reddito e dovranno utilizzare sempre più programmi di asset building che agiscono sul lato del patrimonio. La famiglia povera di oggi non è tanto quella che non ha quel che le serve per “sfamarsi”, quanto piuttosto quella che non è in grado di accumulare un patrimonio capace di assicurarle un livello minimo di sicurezza intertemporale. E non v’è chi non veda come, nella implementazione di tali programmi, il ruolo delle OSC sia semplicemente indispensabile. Si pensi all’istituto del Trust, alle varie forme di finanza alternativa e alla messa in opera dei mercati di qualità sociale. Iniziative, queste, che per la loro realizzazione presuppongono tutte un aumento del tasso di imprenditorialità, sia for profit sia civile. Si veda, ad esempio, la recente esperienza inglese basata sulle comunità imprenditoriali per il recupero dei territori svantaggiati e per la rivitalizzazione dei quartieri degradati delle grandi città.3
Conclusioni
L’antropologia iper-minimalista dell’homo oeconomicus, riducendo tutti i rapporti interpersonali alla forma del contratto mercantile, ha finito con il contagiare pure la sfera pubblica, la quale non ha trovato di meglio che partorire la versione assistenzialistico-risarcitoria del welfare. L’eclissi del civile che l’avanzata dell’individualismo ha determinato ha contribuito a rendere inospitale il mondo in cui viviamo, un mondo sempre più popolato di merci e di cose e sempre meno di autentiche relazioni umane. Il nuovo welfare che si sta profilando all’orizzonte non può allora non tenere conto del fatto che l’Italia è stata la culla della economia civile, una tradizione di pensiero che oggi va riscoperta e opportunamente reinterpretata, come il progetto inglese della Big Society sta cercando di fare. Ho motivo di ritenere che non ci voglia ancora tanto prima che ciò avvenga. Si tratta solo di accelerare un processo che è già in atto, come tanti segnali indicano chiaramente.
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