Mentre ci guardiamo allo specchio e ogni giorno osserviamo un Paese che invecchia (un quarto della popolazione è over 65), dove le famiglie si assottigliano, la natalità arretra e l’immigrazione copre intere fasce di attività per le quali mancano i lavoratori, abbiamo perso di vista il vero buco nero dell’Italia contemporanea, il suo più grande spreco in termini di risorse umane: la grande fuga all’estero dei giovani. Secondo l’ultimo Rapporto Migrantes, tra il 2020 e il 2023, in appena tre anni, in Italia i residenti sono diminuiti di circa 650 mila unità, ma nello stesso periodo i giovani connazionali che hanno scelto di vivere all’estero sono aumentati dell’11,8 per cento.
Altri dati interessanti aiutano a decifrare l’intensità e le radici di questo fenomeno. Il 21,7 per cento dei migranti italiani appartengono alla fascia di età tra i 18 e i 34 anni: e sono i più formati e preparati, con i migliori di titoli di studio e ottime competenze per entrare nel mondo del lavoro. Quel lavoro che non trovano in Italia, con una giusta retribuzione. A questo punto abbiamo 6 milioni e 134 mila connazionali che hanno scelto di andare a vivere in un Paese straniero. D’altra parte lo svuotamento dell’Italia è molto marcato dal punto di vista generazionale. Secondo un’indagine realizzata da Ipsos per conto della Fondazione Raffaele Barletta, su un campione molto vasto di giovani under 30, il 35 per cento degli intervistati sono pronti a lasciare l’Italia alla ricerca di opportunità lavorative e di migliori retribuzioni. Alla perdita di risorse umane, bisogna aggiungere lo spreco di risorse finanziarie dello Stato italiano che ha investito nella formazione dei giovani poi emigrati. Il ciclo di istruzione completo di ogni laureato, fino al giorno nel quale poi decide di lasciare l’Italia, costa circa 166 mila euro. Soldi che di fatto sono serviti a trasferire ricchezza, umana e finanziaria, in un’altra nazione.
Ma da cosa nasce la grande fuga dei giovani? Perché l’Italia, che pure vanta un livello di qualità della vita molto alto, anche per irripetibili fattori ambientali, è diventata un Paese da nuova emigrazione? Le risposte a queste domande partono dal disagio giovanile rispetto a qualsiasi progetto vita, i cui perni sono sempre, oggi come ieri, il lavoro e la relativa retribuzione. A fronte del diluvio retorico che accompagna la declinazione di parole come merito, competenze, professionalità, in Italia il lavoro, che non sia precario e ridotto a “lavoretto”, si trova ancora attraverso le reti lunghe di relazioni, rapporti, conoscenze familiari e amicali. Tutto tranne il merito. Sul nostro sito abbiamo raccontato tante storie di giovani mortificati in Italia con proposte di lavoro indecenti, per ritmi e retribuzione, a fronte di opportunità all’estero molto più trasparenti e accattivanti.
Da vent’anni gli stipendi in Italia non coprono neanche l’inflazione, vanno indietro, e sono decisamente bassi rispetto alla media di tutte le nazioni occidentali. L’esempio classico è quello dei medici. Nei nostri ospedali dobbiamo importare medici da Cuba o dai paesi africani, mentre i nostri giovani dottori, preparati e formati, vanno all’estero, dove guadagnano molto meglio e non vengono aggrediti dai familiari dei pazienti per una terapia non andata a buon fine. Il discorso è identico per tutte le fasce dei professionisti non protetti dal numero chiuso, dagli architetti agli avvocati; per gli insegnanti, specie quelli della scuola; per i ricercatori, che in Italia ricevono compensi da sottoproletariato urbano.
A fronte di retribuzioni appiattite o in discesa, è in costante aumento il costo della vita. E anche in questo caso il prezzo più alto lo pagano i giovani. Le famiglie del ceto medio italiano, infatti, hanno una rete di protezione, fatta di una montagna di risparmi (questa vocazione ad accumulare e mettere da parte, tipica di un popolo con lo scheletro contadino, non si è mai spenta), delle case di proprietà messe a reddito, con le quali gli italiani sono diventati una comunità di affittacamere. Insomma: il nostro ceto medio è ben patrimonializzato, e grazie alle sue riserve è in grado di reggere l’onda lunga della Grande Crisi, di cambiare pelle per trasformarsi in un popolo di rentiers, e di godersi l’alta qualità della vita del Bel Paese. Ma tutto questo per i giovani non esiste. Loro devono fare i conti, quando si spostano in una qualsiasi città per studiare o quando lasciano la famiglia di origine per andare a vivere da soli (i progetti familiari tendono a essere sempre meno diffusi), con affitti che in città efficienti, come Milano, si traducono in una spesa di mille euro al mese per una stanza, e con la totale impossibilità di acquistare una casa attraverso un mutuo coperto da una parte dello stipendio.
Sommando i fattori, si spiega perché negli ultimi due decenni abbiamo assistito in Italia a una riduzione di quasi 3,5 milioni di giovani under 35, con un decremento pari al 21 per cento della popolazione giovanile (il 23 per cento per le giovani di sesso femminile).
Ci sarebbe l’alternativa della provincia, dell’Italia “borghigiana” (secondo l’azzeccata e antica definizione del Censis), dove il costo della vita è decisamente più basso rispetto ai grandi centri urbani. Ma questa è più una prospettiva da età matura: un giovane vuole vivere, di solito, nel cuore pulsante delle metropoli, di quelle grandi città diventate proibitive in Italia. E piuttosto che adattarsi alla dimensione della provincia italiana, o di scegliere un borgo, magari attrezzato per lo smart working, preferisce imboccare la scorciatoia esistenziale. Emigrare, e lasciare un Paese sempre più vecchio e per vecchi.
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