Un libro prezioso, bagnato da un meritato successo (100mila copie vendite in Italia e pubblicazione in 32 paesi del mondo), aiuta a riflettere sulla parte virtuosa, e perfino necessaria, dello spreco del tempo. Nuccio Ordine ha scritto L’utilità dell’inutile (edizioni Bompiani), dove navigando tra filosofi e scrittori dall’antichità a oggi, prova di mostrare come l’ossessione per l’utilità, sinonimo di profitto e guadagno, finisca per inaridire la persona, impoverendo la sua stessa essenza. Al contrario, nel ribaltare la prospettiva, perdere tempo significa guadagnarne, e innanzitutto impadronirsi del proprio tempo, quello che altri vorrebbero sempre sul mercato. Sempre in concorrenza con il tempo degli altri, secondo la spietata legge della domanda e dell’offerta. Il nostro sito ha raccontato più volte l’importanza di sapere stare con sé stessi, anche oziando, come il valore della lentezza e del silenzio. Abbiamo invitato i genitori a riflettere sulle super attività dei figli, su quelle agende di bambini, fitte di impegni post scolastici, dal nuoto alla lingua, dalla danza a qualche attività vagamente formativa. E siamo tra i promotori di un nuovo galateo, nel quale sia compresa anche la scelta consapevole e libera di spegnere il cellulare, non smanettare con lo smartphone, non scrivere e\o ricevere mail. Tutte buone occasioni per sprecare tempo, ovvero per guadagnarlo.
Utilità dell’inutile
Ma riscoprire (i nostri antenati la conoscevano bene…) quella che Nuccio Ordine definisce «l’utilità dell’inutile» è solo l’inizio di un percorso con il quale si possono anche riscrivere alcuni punti cardinali delle nostre vite quotidiane. L’onda lunga dell’efficienza, del merito, delle «competenze per competere», dell’ansia da prestazione, non ha mai dato segni di indietreggiare, neanche nel periodo più buio del lockdown. Siamo così prigionieri di un eterno presente, con una cronica rimozione del passato, se non in termini di asfittica nostalgia, e senza slanci vitali verso il futuro. E in questa dimensione del tempo a senso unico, circolare, la velocità diventa essenziale. Guai a rallentare, guai a perdere tempo. Perfino guardare un tramonto, abbandonarsi ai piaceri degli spettacoli naturali, sono comportamenti che sembrano riservati a una ristretta cerchia di privilegiati. Lussi. Come i Grand Tour, i grandi viaggi di formazione, dell’Ottocento, prerogativa esclusiva dell’establishment europeo. Tutti gli altri devono correre, affannarsi, vivere nell’ossessione che il tempo è prezioso, molto più che denaro, e per non sprecarlo, tutto deve avere uno scopo, un’utilità.
Prigionieri di un eterno presente
In realtà, come scriveva il filosofo Henry David Thoreau, «il tempo è soltanto il fiume dove vado pescando». Come pescare è una mia decisione. Se riuscissimo davvero a scoprire le virtù dello spreco del tempo, ci sarebbe meno lavoro per gli analisti: potremmo cogliere più a fondo il senso della nostra vita, orientarci nel labirinto dei veri desideri e non restare intrappolati nella prigione dei doveri, compresi quelli inventati. Non avere tempo per un amore, un’amicizia, una relazione, per una carezza come per un bacio, è semplicemente un delitto contro noi stessi. Perdere tempo, in questo senso, è fermarsi, dedicarsi a noi e agli altri, ridare spazio alla dimensione dell’uomo che non può essere mai sovrastato dalla macchina, con tutte le sue meravigliose seduzioni. Perdere tempo significa guadagnare gli altri, non sentirsi soli in un mondo che ha fatto della solitudine una condizione di normalità.
Dittatura dell’urgenza e della competizione
La dittatura dell’urgenza e della competizione, con le leggi che la regolano, e pazienza se qualcuno, o tanti, restano indietro, inizia la sua martellante propaganda ai tempi della scuola. Quale valore vogliamo dare alla formazione? Solo uno strumento per entrare, nel modo più robusto possibile e sbaragliando la concorrenza, nel mondo del lavoro? Certo: avere un lavoro richiede buoni studi, questo è innegabile. Ma ridurre lo studio alla possibilità di trovare poi un buon lavoro è un passo indietro, un’abdicazione, della persona, e rende l’uomo piccolo come una formica. La parola scuola deriva dal greco skolè che significa ozio, tempo libero, «piacevole uso delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico» (dall’Enciclopedia Treccani). E anche a scuola, dedicandosi alle relazioni umane oltre che alle materie di insegnamento, si può perdere tempo. Nel senso migliore del termine: per guadagnarlo.
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