Popolo hopi: i segreti delle coltivazioni anti-siccità

Mais, meloni, fagioli e zucche: come fanno questi agricoltori a produrre tanto nonostante la totale mancanza di pioggia nel deserto dell’Arizona. Tecniche antichissime, ma più che mai moderne

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L’Arizona è uno degli epicentri della crisi climatica.  Temperature sempre più alte mettono a rischio tutte le attività agricole, la siccità brucia tutto, i raccolti saltano e migliaia di famiglia rischiano di finire sul lastrico. Dal disastro si salva il popolo hopi, che sugli altopiani dell’Arzona nordoccidentale coltiva ancora, con ottimi risultati, mais, fagioli, meloni e zucche.

POPOLO HOPI

Gli hopi sono una tribù di nativi americani che vive in una riserva di 600 mila ettari, una piccola parte del territorio un tempo occupato da questa attivissima e creativa popolazione. In quest’area, tra villaggi costruiti in cima ad altipiani aridi, cadono meno di 25 centimetri di pioggia all’anno. E in queste condizioni di siccità endemica, perenne, gli hopi, grazie alla loro cultura sono riuscita a sopravvivere, non solo come popolazione, ma anche come agricoltori.

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MICHAEL KOTUTWA JOHNSON

Un personaggio che aiuta a capire questa eccezionale cultura contadina, capace di non soffocare sotto i colpi dell’espansionismo consumista degli americani, è Michael Kotutwa Johnson, uomo di frontiera tra le due civiltà. Michael è nato in Arizona, si è laureato in Scienze agricole alla Cornell University di Ithaca, ma poi ha deciso di tornare a lavorare con la sua famiglia nelle terre riservate agli hopi.

AGRICOLTURA HOPI

Tornato nella sua terrà natia, Johnson ha scoperto i segreti, oggi attualissimi, dell’agricoltura hopi che non ha mai smesso da millenni di essere sostenibile. La stagione della semina inizia in primavera, quando il terreno viene pulito dalle erbe infestanti, la sabbia viene spazzata e si scavano le buche. A una profondità , nel caso del mais, dai 15 ai 45 centimetri, dove finalmente il terreno diventa umido. E dire che all’università a Johnson avevano insegnato che il mais doveva essere seminato a soltanto 2,5 centimetri di profondità.  Una volta che arrivano le piantine, l’agricoltore hopi elimina le più corte, e lascia solo le più robuste, selezionando così quelle che saranno capaci di resistere alla siccità e dare comunque un’abbondante quantità di frutti. Ogni pianta viene ispezionata, i semi sono controllati con la massima attenzione, alla ricerca di insetti distruttivi. Ma nell’agricoltura hopi non esistono fertilizzanti e insetticidi. Se non quelli naturali.

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BIODIVERSITÀ E POPOLI INDIGENI

Mentre lavora la terra, Johnson continua le sue ricerche, e ha persino ottenuto un incarico all’Indigenous resilience center di Tucson, in Arizona. Qui si studiano e si insegnano le tecniche della coltivazione anti-siccità delle popolazioni indigene. Partendo da un dato che dimostra quanto un’antica sapienza di tribù ormai diventate una netta minoranza nella popolazione, sia ancora preziosa. I popoli indigeni, che rappresentano solo il 5 per cento della popolazione mondiale, proteggono l’80 per cento della biodiversità globale sul 25 per cento delle loro terre. Dovremmo essere tutti grati agli hopi.

L’immagine di copertina è tratta dalla pagina Facebook di Michael Kotutwa Johnson

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