POPULISMO IN ITALIA –
Gli italiani soffrono di una malattia genetica: il populismo. Ne abbiamo tracce ricorrenti dall’Unità d’Italia in poi, e con diversi declinazioni, fino alle attuali versioni che valgono circa un terzo dell’elettorato, sommando la Lega di Matteo Salvini al Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. Indro Montanelli, con efficace sintesi, diceva che gli italiani hanno bisogno come il pane dell’uomo che “si affaccia dal balcone”, qualunque sia il suo colore, e con questo non considerava, giustamente, Benito Mussolini come una occasionale parentesi della storia. In un libro molto completo (Italia populista, edizioni Il Mulino) il politologo Marco Tarchi prova a scavare alle radici del fenomeno che mette la folla contro i capi, demolisce le classi dirigenti, mitizza il popolo e la società civile, azzera la rappresentanza e i corpi intermedi, a cominciare dai partiti, a favore di un rapporto diretto tra l’uomo della Provvidenza e gli elettori.
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STORIA DEL POPULISMO –
Innanzitutto il testo di Tarchi ha il merito di circoscrivere il populismo, sommandone gli aspetti politici con i contorni di una mentalità. Scrive l’autore: «Il popolo viene così individuato come una totalità organica, con naturali qualità etiche, dalla laboriosità all’integrità, contrapposte all’inefficienza e alla corruzione di oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali. Da qui la rivendicazione di un primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». La prima scossa populista, nell’Italia del dopoguerra, fu quella dell’Uomo qualunque, il movimento guidato dal giornalista satirico Guglielmo Giannini. Siamo all’alba della democrazia post fascista, e Giannini occupa con slogan efficaci («siamo stufi di tutti», «abbasso tutti») il vuoto che si è aperto nella destra italiana con il crollo del fascismo. Il suo settimanale, L’uomo qualunque, fondato nel 1944, in pochi mesi passa dalle iniziali 25mila copie a una tiratura di 850mila copie, e alle elezioni per la Costituente la lista guidata da Giannini raccoglie il 5,3 per cento dei voti e 30 deputati. L’uomo è un personaggio esuberante e autocratico (ricorda molto da vicino Grillo), ma la sua spinta propulsiva evapora rapidamente mano a mano che si consolida la forza dei grandi partiti di massa che guideranno la Prima Repubblica fino al crack istituzionale di Tangentopoli. La seconda scossa, più locale, ha il timbro di Achille Lauro, altro personaggio da balcone per usare la categoria cara a Montanelli, in una versione nella quale il populismo cattura la pancia ribellista del sottoproletariato, anche attraverso le seduzioni del capopopolo (quanti sindaci hanno provato ad imitarlo…), delle tre effe (festa, farina e forca) e dello scambio di favori. Il laurismo scomparirà, non prima di avere creato un altro mito nell’album degli uomini della Provvidenza, con la crescita del partito monarchico e del Movimento sociale, il vero erede del fascismo.
POPULISMO E ANTIPOLITICA –
Fino alla slavina di Mani Pulite il populismo va in sonno. Riemerge dopo il 1992, e la liquidazione di un intero sistema di partiti, con un filo rosso, da allora mai spezzato, che unisce Silvio Berlusconi, Umberto Bossi ( e oggi Salvini), Antonio Di Pietro e Grillo. Le leve che lo gonfiano sono un’opinione pubblica arrabbiata e indignata, la spinta propulsiva dei media, innanzitutto la televisione e più tardi il web, la semplificazione del messaggio politico. Il populismo si mescola così all’antipolitica, entrambi si nutrono del discredito delle classi dirigenti, in una sorta di “democrazia del pubblico”, televisivo e informatico, e in un processo inarrestabile di personalizzazione che accredita nell’opinione pubblica il leader come il personaggio carismatico capace di interpretare le pulsioni e gli umori popolari. Poi arriva la Grande Crisi, la paura dell’impoverimento e della perdita di sicurezze sociali, che saldano il populismo italiano ad analoghi fenomeni europei. Nell’Europa prigioniera di veti incrociati, della sua incompiutezza e dell’inanità dei suoi leader. Oggi ci sono almeno cinque nazioni dell’Unione dove i partiti populisti sfiorano, come in Italia, un terzo dell’elettorato: l’Austria, la Francia, la Gran Bretagna, l’Ungheria e l’Olanda. Gli slogan più utilizzati in questa versione transnazionale del populismo vanno dall’uscita dall’euro alla lotta all’immigrazione, dal nazionalismo alle rivendicazioni secessioniste sul territorio, dalla demonizzazione del mercato alla messa al bando degli eurocrati di Bruxelles. Slogan, appunto, di straordinaria presa, ma di irrilevante concretezza. Lo spazio vitale nel quale nuotano a grandi bracciate, e con l’amplificazione dei teatrini televisivi, Salvini e Grillo.
COME FERMARE IL POPULISMO –
Esiste una terapia per fermare l’onda lunga del populismo? Proprio il caso italiano, ricostruito nel libro di Tarchi, ci insegna che l’unica medicina in grado di funzionare è la politica. Autorevole, solida, radicata nella società e sul territorio, competente, efficace ed efficiente. E in particolare a frenare gli istinti genetici di un popolo nel mezzo secolo della Prima Repubblica ci ha pensato la Democrazia cristiana, il partito pigliatutto, per la sua trasversalità, in grado così di depurare gli umori dell’opinione pubblica e di riconvertirli, anche grazie allo schema di valori offerto dall’ancoraggio alla dottrina sociale della Chiesa, in una proposta politica. Quando si parla del vuoto dei moderati in Italia, in modo spesso e astratto e vacuo, si dimentica questa funzione essenziale di una rappresentanza che non può non essere inquadrata nella grande famiglia dei popolari europei. Sono loro, i popolari, cioè i moderati, che per mission possono e devono contenere il populismo e riportarlo nel perimetro della democrazia. Correndo il rischio di una lunga traversata nel deserto, dopo la quale però l’Italia diventerebbe un paese più normale.
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