Il colpo grosso del porto di Salerno, che ha sfilato a quello di Napoli una consistente fetta di traffico, non è il frutto di una sana concorrenza quanto l’ultimo risultato di una lenta agonia di un polo strategico per la città e per la sua economia. L’impresa dell’armatore Ignazio Messina lavorava a Napoli dal 1921, e ha deciso di spostare a Salerno i suoi 35mila container (pari a quasi il 10 per cento dell’intero traffico del porto di Napoli), con 180 attracchi di navi all’anno, perché stufo dei costi troppo alti e dei servizi poco efficienti.
Più che il mercato, qui ha contato la cattiva gestione. Il pedaggio extra che armatori e imprese del settore pagano a Napoli matura, infatti, come un dazio legato al graduale collasso dello scalo. Il porto napoletano è diventato il feudo di interessi corporativi, quasi sempre protetti dalla solita giungla di sindacati, e di una burocrazia asfissiante. Un container per essere movimentato deve sottoporsi ai controlli, in sequenza, della Dogana, della Guardia di Finanza, della Polizia e degli ispettori sanitari. Un vero percorso a ostacoli con tempi biblici, che significano lasciare il carico sulle banchine più a lungo, e poiché lo spazio è poco, l’armatore lo paga a caro prezzo.
Il pegno del disordine, di un caos che percepisce subito chiunque mette piede nel porto di Napoli, dove soltanto il 2 per cento delle merci viene spostato su ferro. E non potrebbe essere diversamente, visto che tra l’altro l’azienda è senza vertice ormai da diversi mesi, in attesa che il ministro di turno nomini il nuovo presidente, dopo un duro scontro, con la solita logica della contrapposizione istituzionale, tra i diversi enti locali che hanno voce in capitolo.
Nel vuoto di potere dilagano le lobby e resta sullo sfondo, come l’araba fenice, il progetto di ampliamento e di riqualificazione, compresa quella ambientale, dell’intera area. Parliamo di un investimento che, complessivamente, metterà sul tavolo qualcosa come un miliardo di euro, tra fondi pubblici e quote dei privati. Una fetta importante di questi soldi dovrebbe arrivare dall’Unione europea, ma gli ispettori di Bruxelles sono stati molto chiari: nessun finanziamento senza il nuovo piano regolatore.
E qui nasce un altro problema. Il nuovo strumento urbanistico, dopo mezzo secolo di dibattito, è stato rispedito al mittente dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici in attesa di “nuove integrazioni”. Ma non essendoci un vertice del Porto che decide e firma, il piano regolatore è bloccato negli uffici, come i container sulle banchine, e i soldi dell’Europa rischiano di sfumare.
A questo punto c’è solo da sperare che il ministro competente, nella persona di Maurizio Lupi, prenda al più presto una decisione sulla nomina della nuova autorità portuale, e dia specifico mandato al nuovo presidente di completare a brevissima scadenza l’iter del piano regolatore. Il ministro farebbe bene, di concerto con gli amministratori locali, a mettere dei paletti a questa strana concorrenza tra Napoli e Salerno, nell’interesse generale della Campania che non ha proprio bisogno di una guerra degli scali marittimi. E chiarisca una linea di indirizzo, perché se il Porto di Napoli deve essere ridimensionato, allora diventa inutile prevederne un maxi-piano di ampliamento. Meglio arrendersi e spostare i soldi su altri progetti.
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