di Massimo Mucchetti
La bolletta della luce aumenta del 3,9 per cento. Una stangata ben superiore al tasso d’inflazione, una zeppa nell’ingranaggio della ripresa. Colpa della guerra in Libia, della catastrofe naturale in Giappone? Macché. L’aumento dei prezzi internazionali dei combustibili pesa solo per lo 0,9 per cento. Tre punti tondi d’aumento vengono dal costo dei sussidi alle imprese che producono energia elettrica da fonti rinnovabili. Gli aiuti a queste imprese salgono così a 4,9 miliardi l’anno. L’equivalente della manovra prodiana sul cuneo fiscale, un multiplo della social card berlusconiana.
Mentre si discute in astratto se l’Italia debba o non debba avere una politica industriale partendo dal caso Parmalat, in concreto si assegnano 1,5 miliardi a copertura dei certificati verdi invenduti e 2,4 per il fotovoltaico. La decisione l’ha presa l’Autorità per l’Energia, ma è un atto dovuto per un quarto ai mercati e per tre quarti alle scelte del governo. E’ bene ricordare che esistono due modi di finanziare la spesa pubblica e diminuire, quindi, il reddito disponibile delle famiglie e delle imprese: uno, trasparente seppur sgradevole, è l’imposizione fiscale diretta e indiretta; l’altro, meno chiaro e perciò più tollerato, consiste nell’aumentare i prezzi regolati di beni irrinunciabili come l’energia destinando i proventi a finalità e beneficiari stabiliti per legge. La misura di furbizia implicita in questa seconda modalità sarebbe comunque il meno se gli effetti dell’opaco prelievo dalle tasche degli italiani avessero un’utilità generale. Non sembra questo il caso. L’Autorità ha avuto il merito di spiegare com’è diviso l’aumento. La qual cosa apre tre questioni. Prima questione, lo stanziamento per i certificati verdi è raddoppiato. L’Autorità l’aveva in precedenza fissato in 700 milioni l’anno avvertendo che l’onere avrebbe potuto raddoppiare ove il legislatore avesse dato un’interpretazione della «manovra Tremonti» meno favorevole ai consumatori. Con il decreto attuativo della direttiva Ue sulle rinnovabili, il governo ha cassato la norma stessa azzerando lo sforzo del ministro dell’Economia e costringendo l’Autorità a prenderne atto. Seconda questione, i 2,4 miliardi sussidiano gli impianti fotovoltaici che l’Autorità stima prudenzialmente in funzione a fine 2011 per una potenza di 6700 megawatt e non tutti a tariffa massima. Gli incentivi dureranno 20 anni. A moneta corrente, comporteranno un onere complessivo di almeno 48 miliardi. Ma il peggio deve ancora venire. E’in pieno svolgimento, infatti, una partita complicata ma soprattutto confusa dentro il governo, tra l’anima «ambientalista» e quella «industrialista» , e tra il governo e le lobby del fotovoltaico. Al momento sembra emergere un compromesso nel fissare, mediatrice Confindustria, un tetto di 6 miliardi agli incentivi annuali per il fotovoltaico da raggiungere nel 2016-2017. L’associazione imprenditoriale presieduta da Emma Marcegaglia immagina questi incentivi ad andamento decrescente (ma sempre meno dei tedeschi) e dunque in grado di far installare una capacità produttiva sussidiata di 20 mila megawatt, due volte e mezza l’obiettivo che il governo italiano si era dato per rispettare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 al 2020, quasi si cercasse a tutti i costi il modo più oneroso rispettare il protocollo di Kyoto. Assosolare, incontentabile, vorrebbe alzare il tetto addirittura a 7 miliardi. Ma già 6 miliardi per 20 anni fanno 120 miliardi. Sei miliardi equivalgono al valore di una Parmalat e mezza. Sono meno degli aiuti pubblici dati alla Fiat dal 1990 ai giorni nostri. Terza questione, gli effetti sull’economia. Se passasse la linea confindustriale, avremmo a regime energia solare per circa 24 terawattora l’anno, l’8% dell’attuale produzione nazionale il cui prezzo industriale è pari a 20 miliardi di euro. Questo dorato 8% costerebbe quanto il 30% del totale e garantirebbe, ai livelli attuali, ritorni tra il 60 e l’80% sul capitale di rischio investito. Secondo le stime del Politecnico di Milano, il fotovoltaico darebbe lavoro nel 2013 a 50 mila addetti, tra diretti e indiretti. Le associazioni di settore si spingono fino a 150 mila addetti. Il governo dovrebbe calcolare quanti posti di lavoro si creerebbero a incentivi pieni, e per quanto tempo, e paragonarli a quanti ne verrebbero assegnando diversamente queste risorse dei cittadini o lasciandole nelle loro tasche per altri consumi e investimenti. E quale ricaduta avrebbe destinare anche solo una frazione di quest’enormità alla ricerca sulle rinnovabili che sarebbe la vera base di una filiera industriale sofisticata e non troppo tributaria dell’estero.
Vuoi conoscere una selezione delle nostre notizie?
- Iscriviti alla nostra Newsletter cliccando qui;
- Siamo anche su Google News, attiva la stella per inserirci tra le fonti preferite;
- Seguici su Facebook, Instagram e Pinterest.