RICCARDO MUTI –
“Nel mondo, specie attraverso la stampa internazionale, i teatri italiani sono considerati precari, sull’orlo del crack, con una vita difficile, al batticuore, e con una programmazione definita all’ultimo minuto. Probabilmente è un’immagine peggiore della realtà, ma è così che ci vedono…”: il maestro Riccardo Muti in questi teatri ha trascorso quasi vent’anni della sua vita di direttore, tra il Maggio Fiorentino, la Scala e L’Opera di Roma. E oggi guida la Chicago Symphony Orchestra, una delle prime del mondo.
- Quali sono i nostri punti di debolezza?
Innanzitutto ci sono troppi galli nel pollaio, con una dispersione delle responsabilità che rende impossibile una programmazione a lunga scadenza. In Germania il direttore dell’orchestra è anche direttore artistico e sovrintendente. Comanda, senza essere costretto a infinite mediazioni, e risponde solo del suo lavoro. In America il direttore ha la responsabilità del programma, e il consiglio di amministrazione, il board, si occupa solo della parte finanziaria. In Italia, appena diventai direttore musicale alla Scala la prima lettera che mi arrivò era di un deputato che mi raccomandava un soprano. E da allora le cose non sono che peggiorate.
- Senza stabilità e senza un potere chiaro, anche il cartellone è precario.
Infatti, una programmazione a lungo termine così diventa difficile. Però nel mondo normale i teatri non funzionano così. Il mio contratto a Chicago scade nel 2020 e ho già definito il programma fino a quella data; pochi giorni fa ho ricevuto il direttore del Metropolitan Opera House di New York e mi ha invitato per un concerto nella stagione 2019-2020.
- Quanto pesa il corporativismo nei teatri italiani?
C’è un intreccio tra sindacati e politica che produce una valanga di assemblee, scioperi, aspettative improprie. Con il risultato di un’incertezza strisciante e, tornando all’immagine che abbiamo all’estero, di un’Italia dei teatri e della musica definita come ballerina.
- Ma anche in America ci sono i sindacati, e contano.
Assolutamente. Però le union si occupano del miglioramento della qualità artistica del teatro e della vita dei lavoratori, dagli artisti ai tecnici. Ogni tre anni firmano un accordo che prevede solo la soglia di un salario minimo: non minacciano uno sciopero al giorno, e ogni membro dell’orchestra e del coro può negoziare il suo stipendio sopra la soglia minima. Questo meccanismo garantisce i diritti, e allo stesso tempo riconosce merito e competenze.
- Oggi può dirlo con maggiore libertà: perché ha lasciato Roma?
Ero stanco, e non certo del lavoro che, lo ricordo, non era di direttore artistico, ma semplicemente di una persona che voleva dare una mano all’Opera per risollevarsi.
- Missione impossibile.
La professionalità di tanti artisti era fuori discussione, con un’orchestra di buon livello. La mia, però, è stata una via crucis, con una goccia che ha fatto traboccare il vaso: la tournée in Giappone.
- Che cosa è successo?
Da dieci anni i giapponesi non volevano l’Opera di Roma, avevo messo la mia faccia e la mia parola per tornare in quel Paese. Partiamo, e scopro che il 35 per cento dei coristi e dei professori non sono venuti: sciopero. Il concerto, per fortuna, è andato molto bene, ma per me la storia all’Opera di Roma si è chiusa.
- Una governance opaca, le pressioni della politica e del sindacato: aggiungiamo però la mancanza di risorse finanziarie e la scarsa generosità dei privati.
Non penso che lo Stato, come in America, debba lavarsi le mani dei teatri e lasciare tutto in mano ai privati. Non è il nostro modello. Però bisogna aprire ai finanziamenti dei privati, al fundraising, che non possono prescindere dalla qualità dell’orchestra, del lavoro di tutti e del programma.
- In che senso?
I mecenati che mettono i soldi nei teatri come nei musei americani non interferiscono minimamente nella programmazione o nelle scelte degli artisti, non aprono bocca, ma se la qualità scende, salutano e se ne vanno. Il signor Zell ha appena firmato un assegno di 17 milioni di dollari a completa disposizione dell’orchestra di Chicago, non ha chiesto alcuna contropartita, ma segue i nostri concerti, i nostri risultati, e il nostro riconoscimento a livello internazionale.
- Maestro, lei ha seguito le ultime vicende del San Carlo?
Da lontano. E con lo stato d’animo di un uomo che, ovunque va, non si definisce un italiano. Ma un italiano del Sud.
- Una bella differenza.
Un’identità, che rivendico. La prima volta che visitai un’università musicale in Indiana, vidi dei meravigliosi pianoforti, una tecnologia straordinaria e tanti tappeti. Mi chiesero che cosa ne pensavo, e risposi così: io vengo dal Conservatorio di Napoli, dove si studiava su sedie impagliate sulle quali però si erano seduti Paisiello, Mercadante, Rossini e Donizetti. Ho avuto la fortuna di respirare la stessa aria.
- Oggi questo patrimonio sembra sfuocato, quasi rimosso.
C’è un autolesionismo e una scarsa consapevolezza della propria storia e delle proprie potenzialità che non capisco. Pensi soltanto al piccolo centro di Napoli, dove ci sono nella stessa zona il San Carlo, il Mercadante, i Conservatori, la biblioteca dei Giorolamini: una concentrazione di ricchezze che non ha nessun teatro al mondo. Né la Scala a Milano né il Bolshoi a Mosca.
- Tanta ricchezza così poco valorizzata.
Eppure tutto ciò potrebbe diventare un unico centro culturale e artistico, che mescoli tradizione e innovazione. Questo è l’oro di Napoli: bisogna esserne fieri, e non abbandonarsi al gioco al massacro per distruggerlo.
- L’autolesionismo è quasi un codice genetico dei meridionali.
Io dico: tenetevi stretto il vostro tesoro, e fate tutto il possibile per proteggerlo e valorizzarlo. Sono stato felice quando il San Carlo è diventato patrimonio dell’umanità: è una definizione meritata. Sono triste, quando sento ancora polemiche sterili su un eccellente restauro del teatro realizzato grazie al ministero dei Beni Culturali e del Turismo e in particolare al suo dirigente Salvo Nastasi.
- Qualcuno, a distanza di sette anni dai lavori, ancora mette in dubbio la qualità dell’acustica nel teatro ristrutturato.
Già, e magari senza volerlo produce un danno di immagine che all’estero peserà per anni. E’ come quelle voci, quei venticelli che si spargono e poi nessuno riesce a fermare. Sa perché molti artisti di primo livello non vengono a lavorare in Italia? Perché si è sparsa la voce, non credo del tutto fondata, che nei teatri italiani si paga sempre e solo dopo almeno due-tre anni.
- Lei che opinione ha dell’acustica del San Carlo?
Guardi, forse le mie orecchie non sono eccezionali e non sono in grado di dare un giudizio autorevole. Però posso dirle che nel nuovo San Carlo ho diretto due orchestre tra le prime del mondo, quella di Chicago e quella di Berlino e tutti gli orchestrali e i coristi, dico tutti, mi hanno parlato di un’ottima acustica.
- Intanto il nuovo sovrintendente sarà scelto attraverso una procedura di manifestazione di interesse. Una procedura bizzarra per un grande teatro come il San Carlo, non le pare?
Un metodo assurdo, altro che bizzarro! Una procedura populista, che fa solo male al teatro e fa perdere tempo prezioso. D’altra parte guardate i risultati: si sono candidati tanti signor nessuno. Uno sfacelo.
- Perché Napoli, con il patrimonio e la storia che lei ha descritto, attira così poco?
L’incertezza e la precarietà fanno paura, scoraggiano. Inoltre mi faccia dire una cosa: c’è una scarsa consapevolezza della centralità del San Carlo per Napoli. L’Opera di Vienna è il cuore pulsante della città, e la capitale viennese sarebbe un’altra città senza questa totale simbiosi. A Napoli dovrebbe essere la stessa cosa con il San Carlo.
- Che cosa suggerisce per la scelta del nuovo sovrintendente?
Uno sforzo di unità e di coesione tra le diverse istituzioni sul territorio. Ci sono tutte le condizioni per convergere su un nome internazionale, che farebbe molto bene al teatro e alla città, proprio perché porterebbe il vento di un’esperienza maturata nel mondo normale, dove la cultura è riconosciuta per il suo valore e per la sua storia.
- Un nome internazionale accetterebbe nelle attuali condizioni del teatro?
Sì, se avesse le necessarie garanzie. Tra l’altro il San Carlo ha un vantaggio rispetto ad altri teatri lirici italiani: dal punto di vista finanziario il teatro è stato risanato, e anche questo è un risultato che andrebbe riconosciuto con orgoglio e non rimosso.
- E il maestro Muti quando tornerà a Napoli?
Nella mia stanza di Chicago dietro la scrivania ci sono due grandi fotografie di Napoli…
- Lo so, ma non sfugga alla domanda: quando torna sul podio?
Non sfuggo: sono pronto a tornare. Il mio problema è il tempo, sono riuscito a dirigere la filarmonica di Berlino soltanto dopo cinque anni.
- Le piacerebbe tornare a Napoli con la sua orchestra di giovani, la Cherubini?
Mi sembra un’ottima idea, tornare a Napoli con quei giovani che si stanno formando nella consapevolezza di quanto il mestiere di professore d’orchestra, se fatto bene, sia gravoso.
- A proposito di giovani e di orchestre, le faccio una domanda dal punto artistico. Che cosa manca alle nostre orchestre per essere ai primi posti nel mondo. E’ un problema di soldi?
Non credo che sia una questione di risorse finanziarie.
- E allora?
Credo che il punto debole sia il controllo nelle audizioni. C’è poco rigore, e questo abbassa la media delle orchestre. Inoltre è sbagliato assecondare la tendenza a dividere i teatri italiani in serie A e serie B: parliamo di un Paese dove la storia artistica è sempre stata molto diversa, territorio per territorio, luogo per luogo.
- Un’ottima orchestra non significa innanzitutto un ottimo direttore?
Toscanini diceva che non esistono le cattive orchestre, ma i cattivi direttori. Però quando faceva le sue orchestre, ne sceglieva i componenti uno per uno. La mia esperienza mi dice che in Italia ci sono orchestre con tantissimi musicisti di grande valore, autentiche eccellenze sul piano professionale. Purtroppo sono dei fuoriclasse che in tante occasioni lavorano con musicisti mediocri e questo deprime il valore artistico complessivo dell’orchestra.
- Le scuole, i conservatori, stanno funzionando nella selezione?
C’è un miglioramento, e lo misuro dalla qualità dei ragazzi che si presentano alle selezioni per la Cherubini. E’ in aumento. Servirebbero più orchestre in Italia, e abbiamo la possibilità di farlo. Invece ogni anno si sfornano decine di flautisti, ma con una drammatica domanda: dove vanno a lavorare?
- Già, dove vanno?
Sono condannati alla disoccupazione. Non c’è posto neanche per insegnare nelle scuole: ecco perché servono altre orchestre, e serve una rifondazione di questo sistema musicale. Le faccio un solo esempio, che pongo all’attenzione del ministro Franceschini: ma le sembra possibile che la biblioteca del Conservatorio di Napoli, dove tutti vorrebbero studiare, sia considerata ancora scolastica? E’ una pura follia.
- Dalle orchestre alla lirica. L’Italia delle grandi voci dove è finita?
Se guardiamo al passato, ai mostri sacri che abbiamo avuto, dobbiamo riconoscere che stiamo parlando di ricordi. Bellissimi ma lontani. Se invece diamo uno sguardo al presente e al futuro, mi pare che ci sia una nuova generazione di soprani molto interessante, specie nei settori mozartiani, rossiniani e donizettiani. Mi sembra più fragile, invece, il settore delle voci verdiane, dove non vedo grandi novità all’orizzonte.
- Vorrei concludere con qualche valutazione di natura politica.
Tenga presente che di politica e di economia ne capisco pochissimo….
- Mi riferivo alla politica culturale
Il nostro inno nazionale recita: l’Italia s’è desta… Non certo nella politica culturale.
- E’ pessimista?
Vedo come ci guardano nel mondo. C’è un misto di invidia, per la quantità e la qualità del nostro patrimonio culturale, e di sconcerto per come lo calpestiamo e non riusciamo a valorizzarlo. Siamo fuori dai grandi circuiti culturali internazionali, ed è un declassamento che il Paese paga e non merita per la sua storia.
- Non vede nessun segnale di inversione di tendenza?
Vedo un maggiore impegno per la cultura, e questo è già un segnale.
- Un giovane premier come Matteo Renzi le ispira fiducia?
Mi ispira speranza. Mi piace la forza del suo entusiasmo, è un’energia della quale l’Italia ha bisogno per portare avanti un cambiamento oggi indispensabile. E spero che ce la faccia, nell’interesse di tutti.
PER APPROFONDIRE: Beni culturali sprecati in Italia, tutte le occasioni buttate
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