Carlo Carboni
Sono ormai quotidiane le cattive notizie sui giovani, sempre più inabissati nella depressione sociale. Dopo aver appreso dall’Istat del triste record europeo dei Neet ( Not in Education, Employment or Training: 1 giovane su 5 non studia né lavora), del tasso di disoccupazione al 30%, del calo delle matricole all’università, ora costatiamo che l’effetto scoraggiamento coinvolge anche il nostro giovane brain power professionale. Lo dimostra il tonfo a due cifre del numero di esaminati e abilitati per l’accesso alle libere professioni. L’ultimo rapporto Censis ci aveva rincuorato mostrando che, in controtendenza rispetto alla riduzione degli altri lavoratori autonomi, il numero dei liberi professionisti – motore di modernità – era rimasto sostanzialmente impermeabile alla crisi economica. Purtroppo, i dati raccolti dal Sole 24 Ore segnalano un’inversione di tendenza alla depressione delle aspettative professionali dei nostri giovani laureati. Per non perdere l’autostima delle nostre capacità di adulti di offrire prospettive ai più istruiti, potremmo spiegare la rinuncia a partecipare alle prove di abilitazione con la fragilità caratteriale dei nostri giovani.
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Oppure con la loro facilità nel perdersi d’animo al cospetto delle durezze della realtà o potremmo, persino, rispolverare il loro "fannullonismo" da benessere familistico: ma si tratterebbe della solita stoccata autoconsolatoria che scarica sui giovani le responsabilità della loro condizione impaludata. La realtà è ben altra e lascia a noi adulti uno sgradevole amaro in bocca. È la gerontocrazia, che spadroneggia ai vertici delle corporazioni, a bloccare gli ascensori sociali delle professioni. Le opportunità di lavoro professionale scarseggiano e, quando si presentano, si tratta di lunghe gavette gratuite o malpagate. In molti casi, più che apprendere l’esercizio di una professione, i giovani vengono tenuti " a garzone" (scomparsa dei maestri).
C’è perciò da rimanere sbigottiti nel costatare che il 60% dei giovani italiani non è favorevole a riformare, né tanto meno ad abolire, gli ordini professionali (Termometro politico 2011): forse più che di una razionale preferenza alle protezioni, in realtà irrisorie (per esempio, le tariffe minime), scambiate con la possibilità di libero mercato, siamo di fronte a un pianeta giovanile smarrito e confuso, facile preda della crisi, ma soprattutto di storici corporativismi.
Il mercato delle professioni non è mai stato in Italia un rigoglioso giardino vocazionale, neppure prima del 2009: è da sempre segnato dalle chiusure e dalle clientele corporative di potenti Ordini professionali, espressione di un software culturale diffuso nella società avido di protezioni e mai completamente conquistato dall’idea di un mercato concorrenziale e trasparente.
Una cultura professionale quindi spesso bloccata e clandestinamente immersa nei filtri politico-corporativi dei singoli ordini professionali. Il risultato è che non si è mai riusciti ad adottare quel riformismo pragmatico che contraddistingue una società aperta, pronta a liberalizzare di fronte a corporazioni autoreferenziali che aprono e chiudono discrezionalmente i boccaporti di accesso ai vari mercati professionali, rendendoli impermeabili a stimoli competitivi.
Il dato esilarante è che il calo degli abilitati non riguarda solo professioni tradizionali come i commercialisti, penalizzati da lunghi tirocini, ma anche gli ingegneri, il cui tonfo è solo parzialmente compensato dalla crescita degli informatici e degli ingegneri civili (per i quali l’iscrizione all’albo è prescrittiva).
È il segnale che il paese spreca efficienza, stenta a fare un uso razionale delle sue migliori e più moderne risorse umane. È il segno che qualcosa di più profondo sta accadendo.
In passato, in piena società industriale, le crisi più marcate colpivano in prevalenza l’occupazione manuale. Oggi, nella nostra società che chiamiamo post-industriale (ma siamo in perenne transizione), a fare le spese della depressione sociale saranno proprio le fasce più pregiate in termini di saperi cognitivi e tecnologici, se non si interviene. Pagheranno proprio i knowledge workers sui quali avevamo scommesso per avere un XXI° secolo migliore del precedente. Inoltre, rischiamo che, nella crisi, prenda quota lo scetticismo nell’investimento in sapere, si faccia cioè largo nelle famiglie l’ipotesi sciagurata che la laurea sia inutile, non aumenti per un giovane la probabilità di un’occupazione qualificata. Soprattutto, stiamo ipotecando la cultura del lavoro dei nostri giovani che si sentono sedotti e abbandonati dalla promessa dell’avvento di un’economia dei saperi professionali. La loro stanchezza rinunciataria e pessimista, che si può leggere nei dati, rischia di spegnere il fuoco vocazionale che la cultura del beruf richiede. Perciò, mettere mano a politiche di crescita significa orientarla verso una via alta dello sviluppo, sposare l’idea che lo stesso sistema industriale necessita di funzioni terziarie e professionali messe a capo dei processi di valorizzazione e che, per restituire efficienza al sistema Italia, c’è bisogno di mettere in valore i saperi professionali delle giovani generazioni.
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