Nel giugno del 2002 lo
Shubert theatre di Chicago
ospitò la prima di
un musical intitolato
Movin’ out. Lo spettacolo
era il frutto dell’improbabile
collaborazione tra una coreografa
dinamica e trasgressiva come Twyla Tharp
e il cantautore Billy Joel. Movin’ out, che doveva
esordire a Broadway nell’ottobre successivo,
fu stroncato dai critici con recensioni
che andavano da “incredibilmente
scontato e ingenuo al limite dell’imbarazzo”
a “noioso e concepito male”. I giudizi
erano così duri che il quotidiano newyorchese
Newsday ripubblicò una delle recensioni
prima dell’esordio a Broadway. A quel
punto Twyla Tharp, che aveva sognato, diretto
e coreografato quel progetto costato
diversi milioni di dollari, doveva in qualche
modo correre ai ripari. La sua esperienza,
che in seguito ha raccontato nel libro The
creative habit, è un esempio da manuale di
come reagire al fallimento: Twyla Tharp
incassò i colpi sferrati dai critici e fece i necessari
aggiustamenti allo spettacolo. Dopo
la prima a Broadway le recensioni furono
entusiastiche e il musical vinse due Tony
(gli oscar del teatro), uno dei quali per la coreografia.
La storia di Movin’ out colpisce non solo
perché fa vedere come si può trionfare sulle
avversità, ma perché questo tipo di trasformazioni
è raro. L’idea che si debba reagire
ai fallimenti non è nuova. Sembra che la
guerra vittoriosa del re scozzese Robert the
Bruce contro gli inglesi gli sia stata ispirata
da un ragno ostinato che continuava a tessere
la sua tela nella grotta dove si stava nascondendo.
Questo succedeva otto secoli
fa, ma la cosa sembra improvvisamente
tornata di moda, forse perché di questi tempi
i fallimenti sono molto frequenti. In
astratto, l’idea di imparare dai propri errori
è semplice e accettata da tutti. In pratica,
non è facile realizzarla. Chi stabilisce che è
stato fatto un errore? E quello che c’è da imparare
è davvero così ovvio?
Storie di redenzione
Ho intervistato diversi personaggi pubblici
– imprenditori, artisti, politici e, naturalmente,
banchieri – che sono stati protagonisti
di spettacolari fallimenti e gli ho chiesto
di spiegare che effetto avesse avuto su di
loro. Pochi hanno accettato di parlare, e uno
di quelli che hanno rifiutato – l’ex amministratore
delegato di una banca fallita – ha
fornito una spiegazione piuttosto pittoresca.
Viste dalla parte dei perdenti, queste
storie di redenzione che portano a “imparare
dai propri errori” sembrano essere meno
incoraggianti.
Mettetevi nei panni di Gerald Ratner,
l’imprenditore britannico che nel 1991 distrusse
il suo impero dei gioielli con due
battute sbagliate durante un discorso in
pubblico. Ratner sostiene di non aver imparato
niente da quella esperienza. A prima
vista sembra assurdo, ma riflettendoci bene
è difficile capire cosa avrebbe dovuto
imparare, oltre al fatto di non dover disprezzare
i suoi prodotti in pubblico. Il successo
ottenuto in seguito con una catena di centri
benessere non è stato il frutto di quello che
aveva imparato, ma delle sue qualità di imprenditore.
E quelle le aveva sempre avute.
Twyla Tharp aveva imparato di più dai
suoi errori perché lavorava in un ambiente
che consente questo tipo di apprendimento.
Il tour di rodaggio in provincia è molto
frequente nel mondo del teatro, e c’è una
lunga e onorevole storia di riscrittura dei
musical. Tharp riuscì a modificare il suo
musical in modo più radicale del solito, e la
differenza era nel grado, non nel tipo di trasformazione.
Certi schemi – il tour prima di
approdare a Broadway, il gruppo di discus-
sione, la seconda versione – sono strumenti
di lavoro essenziali nel suo campo. Ma non
avrebbero salvato l’impero di Gerald Ratner,
e non possono essere d’aiuto in molte
altre situazioni. Qual è il modo giusto, per
esempio, per testare il sistema di sicurezza
di una centrale nucleare? O quello per verificare
il rischio di un pacchetto di mutui
subprime? Un principio importante dell’ingegneria
della sicurezza, che ora sta entrando
anche nei regolamenti delle banche, è di
scomporre, o frammentare, un sistema
complesso per permettere alle sue parti di
smettere di funzionare senza danneggiare
tutto. Anche questa è un’idea saggia, ma
non è sempre facile da realizzare. Se l’errore
è catastrofico, aver imparato non servirà
a niente.
Ernst Malmsten, uno dei fondatori di
Boo.com, un’azienda online fallita nel giro
di un anno, è arrivato alla conclusione che a
volte il problema non sta in quello che facciamo,
ma nei suoi tempi di realizzazione,
troppo rapidi o lenti. Boo.com vendeva abiti
firmati, ma il modo in cui è fallita ha preigurato
il destino di banche come la Northern
Rock: all’improvviso i finanziatori
hanno rifiutato di sostenere ancora il suo
modello commerciale troppo aggressivo.
Non c’era stato nessun tour di rodaggio:
Boo.com era partita alla grande con un costoso
sito tridimensionale troppo avanzato
perché gli utenti che usavano ancora le linee
telefoniche lo potessero vedere. I piccoli
errori nella progettazione del sito erano
stati ingigantiti dalle ambiziose dimensioni
del lancio. Malmsten dice che ora ha imparato
a fare le cose con più calma.
Un soggetto affascinante
Tutte le persone intervistate hanno una cosa
in comune: la loro disgrazia non poteva
passare inosservata. Ernst Malmsten è rimasto
improvvisamente senza fondi. La
gafe di Ratner è finita su tutti i giornali. Lucy
Pebble è stata costretta a leggere sul New
York Times il necrologio della sua commedia
Enron: “Artificiosa, tutto fumo e niente
arrosto”, e poco dopo ha dovuto interrompere
le repliche. Anche Twyla Tharp non
poteva non raccogliere il messaggio dei critici.
Naturalmente, una persona che nega
con tutte le forze di aver sbagliato non accetterà
mai di parlare del suo fallimento
con un giornale. Ma c’è qualche eccezione,
come dimostra l’intervista a Donald Rumsfeld,
nella rubrica del Financial Times “A
pranzo con”, in cui l’ex segretario alla difesa
di George W. Bush giustifica l’errore di aver
invaso l’Iraq, liquida la storia delle armi di
distruzione di massa come superata e respinge
ogni critica al suo stile di gestione.
Rumsfeld è un soggetto affascinante per
uno studio sul fallimento. Il suo rifiuto di
ascoltare gli avvertimenti dei generali, ben
documentati in molti resoconti della guerra
in Iraq, è impressionante. In una famosa
conferenza stampa, al culmine della guerra
in Iraq, prese la decisione orwelliana di
proibire al generale Peter Pace di usare la
parola “insorti”. Ma la capacità di Rumsfeld
di negare l’evidenza non è poi così insolita.
I sociopsicologi Elliot Aronson e Carol Travis
spiegano che siamo spesso risucchiati in
un circolo vizioso di autogiustificazione.
Una volta che un investigatore ha deciso chi
è il colpevole, o che un amministratore delegato
ha dato una nuova direttiva strategica,
trova frustrante qualsiasi prova del contrario
e la esclude a priori. Questa “dissonanza
cognitiva” può essere molto forte, e
alcuni degli errori giudiziari che ne derivano
sembrano incredibili. Quando fu introdotto
il test del dna, diverse procure si trovarono
davanti alla prova che lo sperma
rinvenuto sul corpo di una donna stuprata e
assassinata non corrispondeva al dna
dell’uomo che avevano messo dietro le
sbarre. In alcuni casi i pubblici ministeri fe-
cero contorsioni incredibili per dimostrare
che la loro ricostruzione dei fatti era comunque
valida. Non accettavano la conclusione
dolorosa, ma estremamente probabile,
di essersi sbagliati.
Travis e Aronson reinterpretano anche
il famigerato esperimento dell’obbedienza
di Stanley Milgram, nel quale i soggetti si
erano dimostrati disposti a somministrare
scosse elettriche apparentemente fatali. Di
solito l’esperimento è citato per dimostrare
che alcune persone sono pronte a fare qualsiasi
cosa se glielo chiede una figura autorevole.
Ma non è solo questo: l’intensità delle
scosse veniva aumentata molto gradualmente.
Non esisteva un momento specifico
in cui il soggetto poteva trovare un motivo
per rifiutarsi di continuare, perché ogni
nuova scossa era simile alla precedente.
Travis e Aronson fanno notare che il momento
in cui si può decidere di smettere è
quello in cui ci si rende conto che la scossa
precedente è stata un errore. Ma è molto
difficile ammettere con se stessi un errore
simile, quindi preferiamo andare avanti per
autogiustificarci.
Due fette di elogi.
Molti rituali della vita quotidiana sono accuratamente
studiati per garantire che le
persone provino il meno possibile la dolorosa
sensazione del fallimento. Pensate alla
tattica che usano certi uffici, definita praise
sandwich. È una critica nascosta tra due belle
fette di elogi: “Penso che il tuo lavoro sia
ottimo, molto creativo. Sarebbe magnifico
se tu potessi [e qui si inserisce un suggerimento].
Ma nel complesso, secondo me va
benissimo”.
Questo sistema funziona grazie a quello
che l’economista comportamentale Richard
Thaler chiama “bilancio edonico”.
Dato che perdere è molto più doloroso che
guadagnare, conviene cumulare le perdite
con i guadagni: se mi arrivano 150 euro di
rimborso delle tasse ma ne ho persi dieci
per strada, il bilancio edonico consiste nel
mettere insieme le due cose e calcolare che
ci ho guadagnato 140 euro. Il praise sandwich
agisce in base allo stesso principio:
consente alle persone di salvare la faccia.
Ma la tecnica è rischiosa. Voi dite: “È un ottimo
lavoro, ma c’è da sistemare qualcosa”.
E io capisco solo: “È un ottimo lavoro”. Mi
sento gratiicato e non miglioro. Ma allora
qual è la soluzione?
Ci sono persone che sembrano avere
l’imperturbabile capacità di analizzare i loro
errori e di imparare da essi. Ma la maggior
parte di noi non appartiene a questa
categoria. Il generale David Petraeus, tanto
esaltato per i successi ottenuti in Iraq, quando
era un giovane uiciale era famoso per la
sua incapacità di ammettere gli errori.
Quello era il lato oscuro di un brillante e infaticabile
perfezionismo. Ma nel 1981 uno
dei primi comandanti del giovane Petraeus,
il generale di divisione Jack Galvin, gli aidò
il ruolo di critico uiciale. “Il mio compito
è guidare la divisione, il tuo è quello di
criticarmi”, replicò Galvin davanti alla proteste
di Petraeus. Aveva capito che non solo
non possiamo permetterci di ignorare le
critiche, ma dobbiamo fare di tutto per sollecitarle.
Da questo punto di vista, l’esperienza di
Ratner è illuminante. Prima di quel fatidico
discorso aveva consultato la sua esperta di
pubbliche relazioni Lynne Franks e le aveva
detto che avrebbe usato delle battute autocritiche
sui suoi gioielli. Le aveva già sperimentate
con un certo successo nei dopocena,
compresa quella in cui deiniva i suoi
prodotti “paccottiglia”. Franks, invece, gli
aveva suggerito di parlare dell’etica commerciale.
Lui aveva ignorato anche il consiglio
di sua moglie e perfino quello della
donna che azionava il gobbo per ricordargli
i punti salienti del discorso.
Il suo è un esempio da manuale di persona
che ignora un buon consiglio? Purtroppo
non è così semplice. Ratner l’aveva
chiesto anche al suo commercialista, un
collaboratore fidato, e lui gli aveva suggerito
di usare battute ancora più rischiose.
Ratner ricorda anche che il suo amico Michael
Green, esperto della Carlton communications,
pensava che il discorso andasse
benissimo. Insomma, gli altri possono darci
buoni e cattivi consigli, ma siamo noi che
dobbiamo decidere quali seguire.
Gli errori non si cancellano. L’economista
Paul Ormerod fa notare, in un libro intitolato,
naturalmente, Why most things fail,
(Perché tante cose falliscono), che ogni anno
scompare più del 10 per cento delle
aziende statunitensi. Il fallimento è onnipresente,
il che fa pensare che saperlo affrontare
è una capacità importante. Ma
probabilmente non siamo molto bravi a farlo.
Una delle prime scoperte dell’economia
comportamentale è stata l’esistenza della
“avversione alla perdita”, cioè il fatto che
quando perdiamo soffriamo più di quanto
esultiamo guadagnando qualcosa. Studi
recenti sulle transazioni di borsa, sui giocatori
di poker professionisti e perfino sulla
trasmissione televisiva Affari tuoi hanno
dimostrato che reagiamo male alla prospettiva
di perdere qualcosa e corriamo rischi
assurdi nel tentativo di recuperare quello
che ormai dovremmo considerare irrecuperabile.
Ernst Malmsten dice di non aver mai
preso in considerazione l’idea di poter fallire,
ma la maggior parte delle persone non è
come lui. In genere, almeno nei giochi condotti
in laboratorio dagli psicologi e dagli
economisti, sono molto caute, hanno troppa
paura di sbagliare. Malmsten è un imprenditore
nato, ma dopo aver perso 130
milioni di dollari dei suoi investitori, dice:
“Ora ho più paura di sbagliare”. E ne ha motivo.
La posizione di Lucy Pebble è forse la
più strana tra quelle dei nostri sopravvissuti:
ha scritto una commedia e ha suscitato
due reazioni completamente opposte sulle
due sponde dell’Atlantico, sia dal punto di
vista della critica sia da quello commerciale.
È ovvio che si sente “distaccata” dal successo
che la sua opera ha riscosso in Inghilterra.
Le ha ricordato che spesso la differenza
tra il successo e il fallimento è determinata
da fattori impercettibili. Eppure la
differenza si sente. Come diceva Rudyard
Kipling: “Affronta la vittoria e la sconfitta e
tratta entrambe quelle bugiarde nello stesso
modo”. Ma è improbabile che lo facciamo.
Qualcuno dopo una disgrazia si riprende
alla grande, qualcun altro va avanti stancamente.
Ma trattare vittoria e sconfitta
nello stesso modo? Si rischia di fare la fine
di Donald Rumsfeld.
Fonte: Financial Times
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