Scavi di Pompei: il super manager non basta. Servono i soldi dei privati

Buone pratiche di collaborazione tra il pubblico e il privato, garantendo sempre e comunque al primo la tutela del bene, in Italia esistono. Basta saperle replicare, anche al Sud

scavi di pompei il super manager non basta servono i soldi dei privati

Il governo ha finalmente battuto un colpo sulla cultura, e questo è un segnale positivo. In particolare sono stati annunciati alcuni interventi sul rilancio degli scavi di Pompei che almeno danno il senso di una doppia consapevolezza. Da un lato il riconoscimento di un valore specifico di questo sito, delle sue potenzialità fino ad oggi tutte sprecate, della sua forza di patrimonio inestimabile, se utilizzato come si conviene. Dall’altro versante, si prende atto che l’attuale struttura burocratica e amministrativa che sovrintende agli scavi, e dipende direttamente dal ministero della Cultura, non è altezza di una scommessa così impegnativa.

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Lo avevamo scritto in più occasioni: per Pompei servono un braccio operativo ad hoc ed un manager competente che ne abbia la guida. Il governo così ha messo in campo l’Unità Grande Pompei, una sorta di sovrintendenza speciale, che di fatto commissaria il sito e ne affida la regia a un direttore generale che dovrà occuparsi sia della conservazione sia della valorizzazione. Vedremo poi se questa buona intenzione non si riduca a un comunicato stampa e se, in sede di attuazione del provvedimento, l’Unità Grande Pompei avrà risorse sufficienti e uomini giusti. Nella stessa direzione, con una semplificazione dei soggetti coinvolti e con una necessaria concentrazione di competenze, va considerata con favore la decisione di accorpare la Reggia di Caserta, un’altra vergogna nazionale, con il polo museale di Napoli.

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Ma sulle risorse il governo resta ancora nel vago e non scioglie il vero nodo gordiano che riguarda buona parte dei beni culturali in Italia: dove trovarle. I fondi ordinari, se e quando arrivano, a stento bastano per pagare personale e bollette. I fondi straordinari, quelli europei per intenderci, a Pompei sono già stanziati per i cantieri dei restauri, la cui apertura procede con il passo della lumaca e potrebbe, auguriamocelo, avere una scossa dalla nuova gestione. Altre risorse, nelle attuali condizioni della finanza pubblica, non se ne vedono, e dunque non resta che il coinvolgimento dei privati. Sebbene in Italia non ci sia mai stata una grande e visionaria generosità da parte degli imprenditori a difesa del patrimonio culturale nazionale, i privati pronti ad investire oggi ci sono, come dimostra il finanziamento del gruppo Tod’s per il restauro del Colosseo. Nonostante i soliti ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato il cantiere si dovrebbe aprire ed è chiaro a tutti che senza i soldi della famiglia Della Valle il Colosseo sarebbe destinato a marcire. Il governo, nel decreto approvato ieri, auspica e in modo vago promette di sostenere l’intervento dei privati che a Pompei sarebbe essenziale.

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Ma ci vuole qualcosa in più di una generica dichiarazione d’intenti. Un imprenditore o anche un ricco rentier non metteranno mai un euro per valorizzare gli scavi senza rintracciarne un vantaggio, anche di natura economica e non solo di reputazione. E per avere dei vantaggi, a parte le possibili detrazioni fiscali, i privati devono avere una voce in capitolo nella gestione dei servizi che a Pompei, sulla carta, valgono importanti fatturati. Senza convenienze, dai privati non arriverà un euro, e senza i loro soldi la valorizzazione degli scavi sarà solo virtuale: da qui non si esce, se non con la scorciatoia dell’ideologia e della demagogia. D’altra parte buone pratiche di collaborazione tra il pubblico e il privato, garantendo sempre e comunque al primo la tutela del bene, in Italia esistono, come per esempio nel caso della Reggia di Venaria a Torino. Basta saperle replicare, anche nel Sud. Con diligenza e, il ministro Massimo Bray ci consenta un consiglio, senza troppa retorica. Quando, come ha fatto ieri, Bray annuncia che Pompei «diventerà il simbolo di quello che siamo capaci di fare in Italia», almeno pecca di ottimismo. Anche perché prima di lui le stesse parole erano state pronunciate da Mario Monti, e sappiamo come è andata a finire.

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