La Fiat lascia l’Italia? Più che un’indiscrezione, questa sembra la volontà di Sergio Marchionne, il manager del risanamento del grandi gruppo industriale, impegnato nella fusione con l’americana Chrysler. Il trasferimento in America sarebbe legato ai vantaggi fiscali (la pressione negli Usa è pari alla metà di quella in Italia) e lascerebbe a Torino soltanto il quartiere generale della produzione in Europa. In pratica, la Fiat diventerebbe una sorta di filiale della conglomerata americana. In un momento nel quale il governo prova, con ritardo, a difendere la bandiera italiana sulla Parmalat, la notizia dal fronte della Fiat crea imbarazzo e molte preoccupazioni. Ma non c’è da stupirsi. La cultura industriale di Marchione, dominus assoluto della Fiat, è apolide: non ha radici, legami con il territorio, senso di appartenenza. E’ una cultura che spinge dove ci sono le migliori convenienze nel quadro di una competizione internazionale. Altra cosa è, invece, l’interesse nazionale, la necessità di conservare alcuni presidi strategici nel Paese, la difesa di qualche grande industria manifatturiera. Questo è il compito della politica, non di Marchionne, e in particolare di una vera politica industriale, che in Italia ancora non si vede.
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