La solitudine ha molte facce. Per semplificare, ne possiamo citare due, le più frequenti: bianca e nera. La solitudine bianca è anche il piacere di saper stare con sé stessi, scoprirsi e riscoprirsi, alla ricerca di qualcosa che magari avevamo trascurato. Mai sazi dell’avventura nell’universo della conoscenza più intima. La solitudine nera è un’altra cosa.
Ci si sente abbandonati. Non si ha voglia di vedere o solo incontrare gli altri. Manca l’ossigeno vitale delle relazioni umane, quelle dal vivo e non virtuali. E si diventa tristi. Nella sua profonda saggezza Sartre è riuscito a mettere insieme i due elementi: lo stare con sé stessi e la tristezza. E da filosofo è andato alla ricerca del vero nesso, quello che tocca le corde più profonde dell’animo umano. E il nesso sta nel fatto che quando ci sentiamo tristi, solo perché siamo soli, più che lamentarci e autocommiserarci, dovremmo chiederci se qualcosa di noi non funziona. E andrebbe modificato. Sapendo che nella vita c’è sempre tempo per cambiare e non esiste nulla di più mutabile di una personalità e di un atteggiamento verso la vita. La vera battaglia, spesso, è contro la solitudine, che fa ammalare e invecchia. Anche prima del tempo previsto dalla carta d’identità.
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