Ma cos´è questo desiderio di allungare il più possibile la vita? Un cascame della perduta fede nell´immortalità dell´anima o il terrore che ci assale quando pensiamo di doverci congedare da tutti i nostri affetti, e soprattutto dall´amore che ciascuno di noi nutre per sé? O ancora un riflesso di quella mentalità occidentale che non riesce a pensarsi se non in termini di "crescita", senza più nessun riferimento a quella saggia nozione greca che non disgiungeva la felicità dal concetto di limite e di giusta misura?
Probabilmente tutte queste cose. Ma è davvero la vita quella che la scienza medica ha già allungato e ancora promette di allungare di più, o non piuttosto la vecchiaia, quasi ci provasse gusto a farci assistere al decadimento del nostro corpo, allo svuotamento di ogni orizzonte progettuale, alla contemplazione prolungata oltre ogni limite di quell´unico traguardo che inesorabilmente ci attende, e che alla fin fine è pur sempre la morte?
Sarebbe a questo punto necessario che gli scienziati non confondessero la vita col semplice prolungamento del nostro quantitativo biologico, incorrendo nello stesso fraintendimento degli uomini di religione, i quali, a loro volta, confondono la vita con la semplice animazione di un organismo che, senza il soccorso della strumentazione tecnica, non riuscirebbe a vivere.
Riconsegniamo allora alla vita la sua dignità che non risiede nel suo prolungamento, perché, se anche l´organismo, grazie alle scoperte scientifiche che instancabilmente si succedono, dovesse prolungare di anni la sua sempre più malconcia esistenza, c´è pur sempre una psiche che, nel deserto di qualsiasi progettualità, costringe i vecchi ad assaporare ogni giorno la loro insignificanza sociale, in quella solitudine assistita da estranei, dove non sai mai quando un sentimento è sincero.
Ebbene questa psiche desidera che i giorni smettano di susseguirsi con quella monotonia e regolarità scandita da pratiche abituali, da gesti rituali, ogni giorno gli stessi, in cui ci si sente gettati fuori dal "tempo progettuale" di cui si alimenta la vita quando è vita, e ricacciati in quel "tempo ciclico", che non è propriamente dell´uomo, ma della natura che, per garantire la continuità della specie, non prevede l´immortalità degli individui e neppure una loro vita troppo prolungata, in quell´orizzonte opaco e buio dove è difficile reperire un senso, e non dico la gioia e neppure la felicità.
di Umberto Galimberti
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