Società partecipate: lo scandalo di 24mila amministratori pagati a peso d’oro

Il dissesto finanziario e gestionale delle 6.151 società si rovescia direttamente sulle casse dello Stato. Un esempio per tutti è il caso dell’Atac di Roma: 12mila persone assunte e perdite per 1,6 miliardi di euro.

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Società partecipate: già il nome lascia perplessi. Ma quale partecipazione? Non certo quella dei cittadini, che sulla loro pelle pagano il prezzo di scadentissimi servizi pubblici (trasporti, raccolta dei rifiuti, distribuzione dell’acqua), piuttosto quella dei fortunati 24mila amministratori che, spalmati nei fortini di 6.151 società, portano a casa in media 62mila euro l’anno. Netti.

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L’incastro di numeri e fatti di questo mostro del capitalismo municipale e regionale all’italiana ha una sua chimica essenziale decifrabile nel doppio percorso compiuto negli ultimi vent’anni dal sistema Italia: mentre lo Stato centrale è arretrato, vendendo e privatizzando talvolta anche in modo sbagliato (vedi il caso Telecom), gli enti locali sono avanzati accumulando potere, poltrone e clientele da distribuire, consulenze da assegnare a pioggia, soldi da sprecare. E ovviamente corruzione a vari livelli.

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Un esempio per tutti è il caso dell’Atac di Roma, la più grande azienda italiana nel settore del del trasporto pubblico, gonfiata con un organico di 12mila persone delle quali almeno un terzo non servono. Negli ultimi dieci anni, la stagione d’oro dell’orgia delle partecipate, l’Atac ha accumulato perdite per 1,6 miliardi di euro (bruciando ogni anno mezzo miliardo di contributi pubblici), molto più degli 1,2 miliardi vaporizzati con il crack Alitalia. Tra una Parentopoli e l’altra, tra un’inchiesta per corruzione sugli acquisti dei mezzi e un’altra per le assunzioni degli amici degli amici, l’Atac ha tagliato corse e autobus ma allo stesso tempo ha moltiplicato gli stipendi dei suoi vertici, attorno ai 300mila euro poi ridotti, fino a riconoscere premi per il disastro (altri 200mila euro). E visto che Pantalone ha sempre pagato la giostra del trasporto pubblico in salsa romana, i signori dell’Atac hanno concesso ai romani una sorta di tacita indennità. Viaggiare gratis, a sbafo. Il 40 per cento dei passeggeri non paga il biglietto, e in un’azienda normale questa cifra avrebbe indotto a una caccia ossessiva ai portoghesi, invece dei 12mila dipendenti dell’Atac soltanto 70, sulla carta, svolgono la funzione di controllori. Come dire: noi facciamo i fatti, e i soldi nostri; voi viaggiate male ed a singhiozzo, ma gratis.

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Lo scenario romano, al limite dell’inverosimile, si replica con i tempi di un orologio, a Napoli. I bilanci di Anm (trasporto urbano), Asia (rifiuti) e Arin (distribuzione dell’acqua) hanno trascinato l’amministrazione comunale, di fatto, sul baratro del default. Organici gonfiati, promozioni a pioggia, permessi sindacali concessi per andare allo stadio o al mare, forniture poco trasparenti, evasione di massa da parte degli utenti. Ed ai vertici dell’Anm mentre non si trovano i soldi per pagare il gasolio, si tagliano le corse e i gli autobus (sono stati dimezzati negli ultimi cinque anni), allo stesso tempo si  liquida senza battere ciglio un dirigente andato in pensione con un bonifico di 1 milione di euro.

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Dove sta portando il dissesto finanziario e gestionale delle partecipate? Alla catastrofe del Paese, a un’emergenza che, a forza di essere fuori controllo, si rovescia come l’acqua in un diluvio direttamente sulle casse dello Stato, mettendo a rischio tutto il quadro della finanza pubblica. Raffaele Squitieri, presidente della Corte dei Conti, lo ha spiegato, cifre alla mano e in tutte le lingue, ad ogni audizione che ha fatto in Parlamento su questi temi. Il suo ragionamento è semplice, quasi elementare, ma chiarissimo per comprendere l’onda lunga del capitalismo municipale (e regionale) all’italiana. Delle oltre 6mila società partecipate dagli enti locali, infatti, quasi il 35 per cento risultano in perdita, con casi come quello dell’Atac di Roma. Da qui la definizione di Squitieri che parla di un «cancro degli enti locali, con effetti a catena sui conti pubblici». Prima in periferia, con i vari dissesti annunciati, e poi al centro con le continue iniezione di soldi per tappare le falle. Un meccanismo perverso, senza un punto di rottura, una svolta, nonostante tante promesse e impegni: più i governi, con il Parlamento, hanno annunciato tagli e ordine nelle partecipate, e più nei fatti sono aumentate quelle che Squitieri definisce le «scatole cinesi» delle società. Una sorta di catena dello spreco, con società controllate da altre per diluire le catastrofiche perdite e aumentare i rubinetti dai quali fare arrivare il denaro ai vari angoli del sistema.

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A Palermo e Catania, in quella Sicilia che si gioca testa a testa con la Calabria il primato delle partecipate regionali nel Sud ( 26 contro 21), si è scoperto che attraverso giochi contabili e astuzie da ragionieri del capitalismo municipale, con i soldi destinati allo sviluppo, e quindi alla crescita economica e al lavoro vero, si è cercato di tappare qualche buco nelle continue falle delle aziende incaricate del trasporto locale e della raccolta dei rifiuti. Qui lo spreco raddoppia. E colpisce la finanza ordinaria, trascinando comunque le amministrazioni locali al default, e quella straordinaria che con un colpo di penna cambia strada, e da utile, anzi preziosa, diventa inutile. Infine, nel buio di un tunnel a chilometri infiniti, c’è qualche spiraglio di luce. L’amministrazione comunale di Milano, per esempio, sta tentando di uscire dalla giungla, riducendo la sua presenza nelle partecipate, ma comunque deve fare i conti con un disavanzo nelle casse di 117 milioni di euro (bilancio di previsione per il 2014) e innanzitutto con una decina di sindacati che, divisi su tutto, sono riusciti a unirsi in una sorta di cartello all’insegna dello slogan più caro all’Italia delle corporazioni. Guai a chi ci tocca.

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