Il Premio Goliarda Sapienza è dedicato ai minorenni condannati a pene di detenzione. Un ennesimo premio, si dirà, a che serve? E invece? Sembra incredibile? Così come il cinema e il teatro praticato dai reclusi hanno funzionato portando una ventata di aria fresca nelle carceri, l’invito a scrivere racconti ha coagulato attorno al premio molte energie giovanili. Messi di fronte alla scrittura, i ragazzi hanno cominciato a riflettere, a farsi domande che non si erano mai poste, a crearsi un piccolo mondo di immaginazione che precede di poco una idea di doveri e di diritti. Ecco l’importanza riconoscibile della lettura e della scrittura. La parola chiama pensieri, i pensieri chiamano affetti, memorie e un bisogno di logica. La logica chiama, vuole, esige un sistema, anche piccolo di valori. Da qui l’importanza di iniziative creative dentro i luoghi di detenzione e prigionia.
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In occasione del premio si è svolto a Roma, per volere di una donna tenace e coraggiosa, Antonella Ferrera, un convegno nella sede del Burcardo, messo a disposizione dalla Siae. Tema: «Il disagio giovanile». Argomento amplissimo alla cui, anche minima, discussione quattro ore sono sembrate pochi minuti. Ma pure è stato importante cercare di sviscerarlo. E alcune novità sono venute fuori. Per esempio il cambiamento delle «motivazioni a delinquere» usando la terminologia legale.«I reati dei minori», ha chiarito subito Caterina Chinnici, capodipartimento Giustizia minorile, «non derivano solo da disagio economico o sociale ma da un disagio di relazione». E a tutti è sembrato un punto focale. È infatti molto probabile che la differenza fra una visione dickensiana della illegalità giovanile e quella, diciamo camusiana, stia proprio nello spostamento delle ragioni che portano a prevaricare e malversare. Il delinquente ottocentesco affondava le sue radici nel degrado sociale, quello di oggi ha allungato le radici e ha trovato qualcosa di più profondo e inaspettato: l’inaffettività, coltivata da un immaginario comune che circola sempre più rapido e disperante, con il contributo della tecnologia.
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Uno strumento apparentemente democratico e alla portata di tutti, ma anche devastante per la sua incapacità di regolarsi. «Spesso la psicanalisi ha favorito l’assoluzione personale, attribuendo la colpa all’esterno. C’è sempre qualcun altro, fuori di noi, che ci porta sulla mala strada: il padre, la madre, la società, il denaro, il potere , la politica». Detto da uno psicanalista, Raffaele Bracalenti, non è male. Quello che si sta perdendo, continua il presidente psicanalitico per le ricerche sociali, è il senso della responsabilità personale. Soprattutto quando si sommano le irresponsabilità creando il branco, la gang. «I ragazzi di via Paal, tanto per fare un esempio, si mettevano insieme per stornare le leggi della piccola società provinciale, ma fra di loro c’era un valore a cui credevano: la solidarietà». Nelle bande di oggi non c’è né amicizia né solidarietà, ma solo il potere di chi sta sopra su chi sta sotto e ubbidisce. I padri hanno perso la capacità di stabilire norme, ma non sanno nemmeno più darle a se stessi. Insomma il rifiuto delle regole porta allo sfascio? La risposta sembra proprio questa: troppe regole e stabilite in anticipo dall’alto, strangolano l’individuo; ma la mancanza di regole stabilite, anziché condurre trionfalmente alla libertà, trascina all’arbitrio e alla dittatura del più forte sul più debole. «Secondo Freud le masse sono per loro natura irresponsabili e tendono all’autodistruzione. Una guida non è solo auspicabile, ma necessaria».
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C’è una colpevolezza della stampa in tutto questo? E qui vengono le dolenti note che riguardano la rappresentazione che noi stessi ci diamo. Lo specchio in cui ci riflettiamo risulta sempre più deformato e deformante. La stampa e la televisione, ma soprattutto la televisione, con il corollario dei fumetti, dei videogiochi, tende a eroicizzare i violenti. Le narrazioni sono sempre dalla parte del vincente, anche se apparentemente lo si condanna. Le storie dei delitti sono per lo più raccontate, con indulgenza spettacolare, dalla parte degli assassini. Le vittime vengono dimenticate facilmente. O vengono enfiate come voluminosi fantasmi enigmatici, incapaci di suscitare sentimenti di solidarietà. Marco Polillo, presidente della Confindustria cultura Italia non è molto d’accordo. La televisione e i videogiochi sono intrattenimenti, non insegnamenti. È la famiglia che deve formare l’individuo. Purtroppo la famiglia è frammentata, disgregata. La rissa ha prevalso sul ragionamento. Abbiamo anche la presenza pubblica di cattivi maestri che non aiuta a crescere. I ragazzi, non trovando risposte in famiglia, tendono a chiudersi nel loro piccolo e grande mondo della rete. «Ormai tutto è social network. I genitori si sentono in colpa perché non sanno crescerli e finiscono per accontentarli in tutto. Oppure promettono grandi punizioni, che poi vengono smentite subito dopo».
Continua a leggere l’articolo di Dacia Maraini sul Corriere della Sera
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