La carità può fare molto male. O, peggio, essere un business che arricchisce i furbi e non aiuta chi ne ha veramente bisogno. Ho appena finito di leggere il libro di Chiara Furlanetto, L’industria della carità – Il volto nascosto della beneficenza (edizioni Chiarelettere), e devo confessare un certo sgomento di fronte a tanti racconti di una brava giornalista che ha scavato nelle zone d’ombra delle onlus e delle associazioni non profit.
Premesso che parliamo di un settore dove è impegnato un italiano su cinque e dove quindi si concentra una quota importante della nostra solidarietà, ci sono fatti e numeri che parlano da soli. Innanzitutto l’anomalia del fenomeno, molto gonfiato, forse troppo: l’Istat ha censito 457mila organizzazioni, il doppio di quelle presenti nel 2001. Non è possibile che in dieci anni si sia sparso ovunque il seme della generosità, mentre è più probabile che, considerando il fatturato di 67 miliardi di euro l’anno, qualcuno approfitti del settore no-profit per gonfiare le proprie tasche.
Ecco allora i bilanci opachi e nascosti, le strutture elefantiache che ingoiano tutte le donazioni, gli stipendi da super manager di alcuni vertici delle associazioni. Ed ecco anche, proprio come nel caso dei soldi pubblici della politica utilizzati per fini personali, che con i contributi raccolti attraverso le donazioni qualche “volontario” spregiudicato si compra la casa per la famiglia. Purtroppo, non sono casi isolati. Infine un dato colpisce, in particolare, nel libro della Furlanetto: su 100 euro donati, a un bambino africano ne arrivano appena 30. E gli altri dove finiscono? In questa differenza c’è una grande puzza di spreco e di imbroglio.
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