Big Tech in Italia: miliardi di guadagni e spiccioli di tasse

Elusione, evasione, frode: c’è di tutto in un macroscopico privilegio che favorisce “lor signori del web”. Ma forse, grazie a Trump e alle sue follie sui dazi, l’Europa potrebbe reagire e almeno ridurre lo scandalo

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Chiamatela come vi pare (evasione, elusione, frode, etc…), ma la sostanza è una sola: le Big Tech, le potenti multinazionali della tecno-finanza, in Italia, da anni, hanno collaudato l’abitudine a non pagare le tasse. O comunque pagarne meno, molto meno, di quanto dovrebbero. Tutto ciò grazie a diversi meccanismi (alcuni chiaramente illegali) e alla protezione della quale godono “lor signori del werb”, anche in Italia, come in buona parte del mondo, da parte di un ceto politico inginocchiato o silente di fronte alla loro potenza.

Le Big Tech rappresentano un club di aziende che hanno fatto fortuna grazie alla straordinaria forza delle loro innovazioni, che hanno cambiato in modo radicale tutti i nostri stili di vita, e alla combinazione del progresso tecnologico con lo storico potere della finanza. Fino a qualche anno fa erano raccolte nel pugno di una mano, e infatti si chiamavano Big Five: Amazon, Apple, Alphabet-Google, Meta-Facebook, Microsoft. Poi la spider della tecno-finanza ha accelerato e adesso il club delle Big Tech si è allargato, comprendendo (ma la lista è molto lunga) anche giganti dell’Intelligenza Artificiale, come Nvidia, e società dominanti nei rispettivi settori, come Netflix, Tesla, o Airbnb e Booking.com.

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Ma quanto guadagnano in Italia le Big Tech e quante tasse pagano? Gli ultimi dati certi dei quali disponiamo risalgono a qualche anno fa (la ricerca è del 2022) e portano la firma di una fonte attendibile per competenza, autorevolezza e affidabilità: Mediobanca. Da un suo studio viene fuori che il fatturato in Italia delle Big Tech (che intanto si è ulteriormente moltiplicato) si avvicina ai 10 miliardi di euro all’anno. Gli utili, ben nascosti nelle pieghe dei bilanci scritti con le mani dei maestri d’ascia della contabilità aziendale, capaci di tagliare fino all’impossibile il valore dell’imponibile, hanno consentito alle Big Tech di versare al fisco italiano 162 milioni di euro di tasse all’anno, ancorandosi a un’aliquota del 28,3 per cento. Che dire? La montagna dei guadagni record delle Big Tech partorisce un topolino di tasse. E pazienza se, sempre in Italia e non in un altro paese, un contribuente onesto, con un reddito, considerato medio-alto, superiore ai 50mila euro all’anno, debba pagare un’aliquota attorno al 43 per cento. E un piccolo-medio imprenditore, che non appartiene alle specie umana degli evasori fiscali, ma fa il suo dovere di contribuente, lascia allo Stato, che così diventa di fatto un suo socio, più della metà degli utili faticosamente guadagnati.

L’unica magra consolazione di fronte a numeri così evidenti nella loro sfacciataggine, è che fino a qualche tempo fa, andava ancora peggio. Sempre Mediobanca, con le sue ricerche aveva svelato le tasse pagate dalle Big Tech di allora, nel 2019: 6 milioni di euro per Amazon; 4,7 milioni per Google; 1,7 milioni per Microsoft; 153mila euro per Uber.

Intanto, e questa volta la verità non arriva dalle analisi dei bilanci, ma dalle inchieste della magistratura, che anche questo caso esercita una certa supplenza rispetto all’inerzia della politica, in Italia abbiamo fatto il callo all’equazione Big Tech-Grandi Elusori-Grandi Evasori. Attingendo dalla cronaca, c’è solo l’imbarazzo della scelta, e sommando i casi si potrebbe scrivere una voce dell’enciclopedia Wikipedia dedicata all’argomento. Vediamo da vicino qualche esempio. Nel febbraio del 2025, Google ha versato al fisco italiano, senza colpo ferire, un assegno di 326 milioni di euro, per chiudere un’indagine della Procura della Repubblica di Milano, che accusava la Big Tech americana di avere preso la decisione, in modo unilaterale, di auto-ridursi le tasse da versare nell’anno di grazia 2022. Elusione o evasione? Il dibattito non si è ancora chiuso, ma certo Google non ha ritenuto doveroso pagare le tasse, come pure dovrebbe fare se volesse rispettare la legge.

 I conti con la giustizia per Amazon, invece, sono ancora aperti, in quanto il colosso dell’e-commerce globale, sembrerebbe aver dimenticato che in Italia esiste una tassa, chiamata Iva, che riguarda proprio l’universo dei consumi presidiato dalla Big Tech controllata da Jeff Bezos, uno degli uomini più ricchi del mondo. Non solo: stando ai rilievi della Procura della Repubblica di Milano, la frode fiscale di Amazon, relativa soltanto al triennio 2019-2021, si aggira attorno ai 3 miliardi di euro (interessi e sanzioni arrotondano il conto da saldare).

La sigla Iva è ostica anche per Booking.com, che per anni ha sorvolato sull’esistenza di questa imposta, con i relativi obblighi. Più o meno, lo stesso vuoto di memoria ha colpito Airbnb, padre-padrone del mercato degli affitti online: i suoi abilissimi e super stipendiati dirigenti, non ricordavano (o forse non erano stati informati) che in Italia c’è la “cedolare secca”, una tassa, tra l’altro agevolata, che riguarda proprio le locazioni.

Ma l’impunità delle Big Tech, in Italia come in quasi tutta Europa, potrebbe, il condizionale è d’obbligo, subire una battuta d’arresto grazie alle giravolte ciclotimiche di Donald Trump, che ha deciso di sconvolgere il mondo con i suoi stop and go in materia di dazi. L’Unione europea, che ogni tanto batte un colpo e sembra davvero esistere, potrebbe, di nuovo il condizionale, aumentare la tassazione dei ricavi delle Big Tech nel settore della pubblicità, dove multinazionali come Google e Facebook, per esempio sull’online, spadroneggiano, sommando conflitti di interesse e posizioni dominanti. Chissà, forse se l’Europa si dovesse svegliare anche in Italia potremmo ritrovarci con la possibilità, da non sprecare, di prendere qualche soldino in più, in termini di tasse, dalle tasche gonfie di quattrini di “lor signori del web”. E in questo caso dovremmo accendere un cero a Mr. Donald Trump.

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