TEATRI LIRICI IN ITALIA – Non c’è soltanto un caso Muti nel pozzo nero della lirica italiana. E l’episodio dell’abbandono dell’Opera di Roma da parte del più celebre direttore d’orchestra italiano è soltanto l’ultimo sasso lanciato in una palude dove l’Italia musicale è finita e dove siamo sempre più soli se confrontiamo il nostro sistema, dai finanziamenti pubblici ai privilegi, dalla produttività dei teatri al sindacalismo selvaggio, con quello degli altri paesi.
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SPRECHI E PRIVILEGI DEI TEATRI LIRICI ITALIANI – Partiamo da un dato: la lirica non esisterebbe se non fosse sovvenzionata dallo Stato e dagli enti locali. Cioè dalla mano pubblica. Ecco perché i 183 milioni del Fondo unico dello spettacolo assegnati nel 2013 (a partire dai 26 milioni alla Scala e dai 19 milioni all’Opera di Roma), ai quali bisogna aggiungere i circa 110 milioni stanziati dalle amministrazioni locali, rappresentano l’88 per cento delle entrate dei teatri. Un settore (quasi) interamente sovvenzionato. Ma qui arriva la prima anomalia rispetto al resto d’Europa: una rappresentazione lirica in Italia costa, mediamente, il 140 per cento in più rispetto alla media europea. Non solo. Il debito delle Fondazioni continua a crescere, siamo a quota 328 milioni di euro, e 4 su 14 (Bari, Firenze, Napoli e Palermo) sono tuttora commissariate: senza interventi strutturali, sulla gestione degli enti, il fallimento è sempre dietro l’angolo. Ecco perché paesi come la Germania e la Francia, che prevedono sovvenzioni statali al teatro anche più generose rispetto all’Italia (circa 663 milioni di euro per lirica e prosa solo in Francia) legano i contributi ad alcuni parametri. Conti in ordine, alta produttività e qualità artistica, aumento dei finanziamenti pubblici paralleli all’incremento delle entrate dal mercato e da donazioni private. Qualcosa del genere, ma solo in parte, è previsto dalla legge di riforma Bray (firmata dall’ex ministro ai Beni Culturali e al Turismo) che vincola la concessione dei soldi a piani “credibili” di ristrutturazione e di rilancio delle fondazioni. Tradotto: taglio dei costi, a partire dal personale, e aumento della produttività. In Germania, per esempio, i complessivi 150 teatri sono divisi in quattro categorie (sulla base dell’importanza della struttura e della qualità dei programmi, e diverse fondazioni sono state accorpate; così in Inghilterra il Royal Ballet è unico come l’American Ballet negli Stati Uniti; in Francia sono stati introdotti i matching grants, contributi vincolati ai risultati delle fondazioni viste, sotto questo punto di vista, più come aziende che come istituzioni culturali.
Per arrivare a risultati lontanamente paragonabili a quelli ottenuti dai nostri partner, in Italia ci dovrebbe essere la rivoluzione della lirica. La produttività dei nostri teatri è da anni in caduta libera, e sebbene più dei due terzi delle rappresentazioni liriche in tutto il mondo siano in lingua italiana, il Paese leader è diventato proprio la Germania (21mila messe in scena), seguita da Stati Uniti, Austria e Francia. L’Italia è soltanto quinta in classifica. Mediamente, nei nostri teatri lirici le esibizioni sono 77 volte all’anno (il record è alla Scala con 107) e il confronto con la produttività dei teatri stranieri è imbarazzante: 360 rappresentazioni all’Opéra di Parigi, 177 al Bayerische Staatsoper di Monaco, 225 al Metropolitan di New York. La distanza, in termini di produttività, tra la lirica made in Italy e il resto del mondo è un abisso. Quanto alla struttura dei costi, gli organici si sono sgonfiati ovunque nel mondo internazionale della lirica, e laddove sono rimasti inalterati è aumentata appunto la produzione. In Italia, invece, finora è avvenuto il contrario. Risultato: il costo del personale incide ancora per il 70 per cento nel budget delle fondazioni liriche dove risultano a libro paga, lavorando soltanto alcuni mesi all’anno, circa 6mila dipendenti. Con alcune voci addizionali, in termini di previdenza integrativa, del tutto insostenibili: il debito del San Carlo, per esempio, è dovuto in buona parte anche a una pensione integrativa concessa, negli anni, a 300 ex lavoratori del teatro, titolari di un assegno previdenziale bis, per giunta reversibile.
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TEATRI LIRICI E SINDACATI – Nasci qui, nelle sabbie mobili di queste condizioni, l’atmosfera surreale da «prova d’orchestra» felliniana che si vive nei nostri teatri lirici, con alcune eccezioni come la Fenice di Venezia e il Regio di Torino, a conferma del fatto che, volendo, la musica può cambiare. Ridurre il peso degli organici, ed aumentare la produttività, significa, certo, fare qualche sacrificio da parte di alcune categorie di lavoratori, ma è l’unica prospettiva di salvezza per le fondazioni liriche. E invece, grazie a una ipertrofica sindacalizzazione (in un teatro lirico italiano non ci sono mai meno di 5 sindacati) ed a forme di ribellismo esasperate, le stagioni passano e ogni anno, puntualmente, va in scena la protesta. D’altra parte smontare il grattacielo di privilegi, nazionali e locali, costruito durante decenni nei quali lo Stato ha sempre coperto i buchi della lirica italiana, non è un’impresa facile. Per nessuno. Pensate soltanto ai diversi tipi di indennità integrative, in pratica si tratta di aumenti di stipendi, che sono stati introdotti a macchia di leopardo nei vari teatri lirici italiani. Con una fantasia che sconfina spesso nella spudoratezza. L’indennità di umidità si riferisce alle rappresentazioni all’aperto, anche se in alcuni casi, come le recite a Caracalla (che fa parte dell’Opera di Roma) è previsto un ulteriore premio. L’indennità della lingua compare ogni qual volta ci sono testi stranieri da recitare, anche per qualche singola parola. L’indennità di frac riguarda un particolare tipo di costume, mentre per gli strumenti si passa da un’indennità di tromba (se troppo pesante) a una di cornetta. Poi c’è l’indennità video, in caso di riprese televisive, e le indennità da negoziare volta per volta, per specifiche esigenze sceniche. Di fronte a un Giulietta e Romeo che, nelle intenzioni del coreografo Sasha Watlz prevedeva una leggera e temporanea pendenza del palcoscenico, ballerini e coristi della Scala invocarono due speciali indennità: una per le caviglie sottoposte a uno sforzo particolare e l’altra per i piegamenti della testa a ritmo di musica. E quando il sovrintendente rispose picche, i sindacati fecero scattare una sciopero selvaggio e lo spettacolo fu cancellato. Già, perché danzando sull’orlo dell’abisso, protagonisti , comparse e figuranti del carrozzone della lirica italiana non hanno mai dimenticato la loro parola d’ordine: Guai a chi ci tocca.
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