TORRENTE VALLEMONIO –
All’appello non manca nessuno. Ministero dei Beni culturali, regione, comune, Genio civile, Tar e Consiglio di Stato: tombola. E sette anni di fascicoli in pellegrinaggio, da un ufficio all’altro, per stabilire se un piccolo corso d’acqua sia classificabile come un torrente o un semplice fosso. Differenza non da poco, perché nel primo caso rientrerebbe nella categoria dei beni soggetti a tutela paesaggistica, nel secondo invece sarebbe considerato un suolo libero da vincoli.
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TORRENTE O FOSSO? –
L’amletico interrogativo si pone, senza una risposta univoca, dal gennaio del 2007 quando la Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici di Salerno e Avellino decide di bloccare i lavori per un impianto di riciclo dei rifiuti nel comune di Bellizzi nella zona del Vallemonio, il presunto torrente. Un’opera importante per il territorio, già avviata nel 2006, dopo tutte le verifiche di legge, con una delibera dell’amministrazione comunale di Bellizzi, un parere positivo della regione Campania e un finanziamento della società pubblica Sviluppo Italia, oggi Invitalia. Per la Soprintendenza, invece, il Vallemonio è un torrente, con il suo pregio ambientale, e dunque il cantiere va chiuso almeno «fino a quando non viene accertata la reale esistenza del vincolo».
IL CASO DEL TORRENTE VALLEMONIO E LA BUROCRAZIA ITALIANA –
Ma una volta innescata la miccia dei veti, la burocrazia italiana diventa un treno ad alta velocità. Non si ferma più. Così la società Rame, che si era aggiudicata l’appalto, entra nella spirale dei lavori iniziati e sospesi e fa giusto in tempo a finire in liquidazione. La sequenza dei pronunciamenti è micidiale: il Tar (2008) condivide la valutazione della Soprintendenza, la regione si oppone (2010) forte di un parere del Genio civile (2009), il ministero dei Beni culturali conferma il vincolo deciso dalla Soprintendenza (2011), il Consiglio di Stato a sua volta si schiera dalla parte dell’impresa ribaltando la sentenza in primo grado del Tar (2013). In teoria sarebbe il via libera all’opera, dopo sette anni di tira e molla, ma il tempo, quello della vita normale e non delle scartoffie maneggiate dai burocrati, è scaduto. Invitalia, di fronte all’incertezza sul futuro del cantiere e sul proseguimento dei lavori, ha ritirato il finanziamento, e l’azienda Rame ha portato i libri in tribunale. E adesso ha presentato il conto al comune di Bellizzi e al ministero dei Beni culturali: tre milioni e 973mila euro. Un risarcimento per i danni scaturiti dall’ingiusta decisione di considerare il Vallemonio un torrente. Ricapitolando, in questo affresco dell’Italia in balia della burocrazia al momento ci sono tre danni. Il primo lo hanno subìto i cittadini di Bellizzi che non vedranno mai l’impianto per il riciclo dei rifiuti sul loro territorio, e dunque continueranno ad avere problemi con lo smaltimento dell’immondizia. Il secondo, i dipendenti e i titolari dell’impresa appaltatrice che intanto hanno perso rispettivamente il lavoro e l’azienda. Il terzo, infine, riguarda le casse pubbliche perché chiunque paghi il conto di questa tragica farsa, comune o ministero, alla fine tutto finisce nel bilancio di Pantalone. E si tratta di milioni, perché ai quasi quattro del risarcimento bisogna poi sommare i soldi spesi in tanti anni tra pratiche, avvocati, apertura e chiusura del cantiere: un piccolo capolavoro di spreco senza che nessuno abbia ancora capito se il Valmonte è un torrente o un fosso.
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