UN PAESE SENZA MAESTRI

 NELLO AJELLO Una celebrazione doverosa ma convocata a freddo, incapace di suscitare emozioni davvero condivise: ecco come emerge la ricorrenza dei centocinquant’ anni dell’ unità d’ Italia da un libro che esce a giorni. S’ intitola Italiani senza padri (Laterza, pagg. 176, euro 12), ed è un serrato dialogo fra uno storico di larga fama, […]

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 NELLO AJELLO

Una celebrazione doverosa ma convocata a freddo, incapace di suscitare emozioni davvero condivise: ecco come emerge la ricorrenza dei centocinquant’ anni dell’ unità d’ Italia da un libro che esce a giorni. S’ intitola Italiani senza padri (Laterza, pagg. 176, euro 12), ed è un serrato dialogo fra uno storico di larga fama, Emilio Gentile, e una giornalista nota ai lettori di Repubblica come esperta di storia contemporanea. Le domande sono, a tratti, utilmente provocatorie. Le risposte evitano ogni "carità di patria". Ne vien fuori un’ Italia che si condanna all’ impossibilità di venir considerata, e soprattutto di giudicarsi essa per prima, una comunità statuale alla stregua delle maggiori nazioni europee, cioè un organismo coerente e coeso pur nella varietà delle proprie componenti ideologiche, politiche, ambientali. La diagnosi che emette l’ intervistato appare drastica, eloquenti le sue argomentazioni. Fra i vaticini formulati agli albori del Risorgimento in merito all’ edificio nazionale che si andava costruendo, Gentile sembra condividere quelli ispirati allo scetticismo. Mai, tuttavia, queste pagine assumono la deliberata sommarietà d’ un pamphlet. Gentile respinge l’ accusa di pessimismo. Si dice, invece, intento ad osservare «la realtà come è oggi». L’ aver disegnato un Risorgimento senza eredi è per lui funzionale al tentativo di «capire che cosa ha sostituito la sua eredità». E si dichiara pronto a cambiare idea se possibile. «Sarò il primo a festeggiare», sono le ultime parole della sua "deposizione". Quali sianoi punti di passaggio della vicenda che ha privato noi italiani d’ un positivo rapporto con i "padri" risorgimentali è la trama di questo racconto a due. Inadempiuto rimane l’ auspicio formulato da d’ Azeglio, il capostipite della genìa dei dubbiosi. «Il primo bisogno dell’ Italia», furono le sue parole, «è che si formino italiani che sappiamo adempiere al loro dovere, quindi che si formino alti e forti caratteri». Parole cui Gentile tributa il più aperto consenso, in contrasto con la diffidenza che gli suscita ciò che egli individua come un "genere letterario", cioè quell’ invettiva flagellatoria iniziata dal Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, cui seguì, per imitazione, «un’ autodafé impazzito» (così lo dipinge Simonetta Fiori) «intorno ai mali tricolori». Non che mancassero gl’ impulsi a edificare un’ identità nazionale "partecipata". Secondo Gentile, fu Crispi ad adoperarsi per la costruzione di "una liturgia patriottica" capace di lenire le incrinature ideali lasciate dal Risorgimento. Alti e bassi, più i secondi che i primi. La "smonumentalizzazione" del Risorgimento cominciò a fine Ottocento. Sarebbe poi stata la Grande Guerra a diffondere fra le masse un senso di appartenenza nazionale. Ma la tregua fu breve. Sulla scia di Oriani, Piero Gobetti avrebbe operato, con il suo Risorgimento senza eroi, una liquidazione radicale del movimento unitario. Il fascismo impose una propria idea di italianità, che escluse per oltre vent’ anni i dissenzienti. Una unanimità anti-risorgimentale saldava dunque fascisti e antifascisti. Si accoglie qui con freddezza la tesi di chi individua nell’ 8 settembre ‘ 43 il momento preciso della "morte della patria". L’ incanto, a parere di Gentile, s’ è rotto prima. Una religione del Risorgimento già non esiste più. I compleanni dell’ Italia hanno offerto e offriranno spettacoli difformi. Il cinquantenario del 1911 parve incoraggiante, il centenario del ‘ 61 ha segnato il culmine del distacco popolare dai ricordi e dai simboli dell’ Unità. Nel calendario delle festività nazionali, il Risorgimento non lascia traccia. Manca, negli annali della letteratura, un romanzo sul Risorgimento, mentre opere assai notevoli, dai Viceré di De Roberto al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, sono centrate sull’ Anti-Risorgimento. Sul piano politico, la seconda metà del secolo scorso, con la prevalenza in cima allo Stato di partiti estranei al moto unitario, democristianie socialisti, ha contribuito a disegnare un paese carente d’ identità "patriottica". Quando s’ è delineato il successo della Lega, i giochi erano già in gran parte fatti. Il movimento della Padania non era la causa dello scollamento, ne era – e ne è – soltanto un sintomo vistoso. Incuriosisce chi abbia interesse per la nostra storiografia la lista, che Gentile ha in mente, di coloro che hanno scrutato da specialisti le vicende dell’ Italia unita. Ecco un giudizio su Francesco De Sanctis: «un cultore della religione della patria ma allergico a retorica e agiografia». Del "giolittiano" Croce cita diversi brani illuminanti. Di Prezzolini conserva un’ idea alta, e così di Gioacchino Volpe, la cui vicinanza al fascismo non sminuì un’ eccelsa vita di studioso. A proposito di Gramsci, notare che ne diffidaè dire poco. A Gaetano Salvemini riconosce di aver ben valutato i meriti del Risorgimento, che giudicava «un’ opera ciclopica». Assume come propri suggeritori di pensiero Rosario Romeo e Renzo De Felice. Se la prende con Denis Mack Smith: lo reputa il battistrada di quegli "sminuitori" della storia d’ Italia, che quasi considerano come l’ emanazione d’ un fascismo perenne. In definitiva, questa confessione in forma di libro la si legge come un antidoto a mille stereotipi: il principale dei quali – Gentile lo ripete spesso – è l’ invadente retorica cui si ricorre per combattere la retorica del Risorgimento.

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