Un sì, e tre no: sono questi i miei voti ai referendum. Il sì che stoppa il nucleare, confesso, lo metto per disperazione e per una convinzione: l’Italia non è un paese serio, e non ha un relativo sistema, per consentirsi la scommessa con questa tecnologia. Una scommessa, tra l’altro, diventata più incerta dopo il disastro in Giappone, il ripensamento della Germania e la discussione aperta in Francia. L’opzione dell’atomo ci servirebbe per abbattere la nostra dipendenza dal petrolio, diminuire i costi della bolletta energetica e andare verso un mix dei relativi rifornimenti. Gli impianti dovrebbero essere piccoli, molto sicuri e di ultima generazione. Uno scenario impraticabile con una politica così fragile, poco autorevole e coraggiosa, e con un’opinione pubblica stordita dalle legittime paure per il nucleare. Tanto vale archiviare la pratica, almeno per il momento, e regolarci sulla base delle decisioni che arriveranno dalle nazioni dove il nucleare c’è e ci sarà innanzitutto grazie alla forza di quei sistemi-Paese. In caso contrario, rischiamo di fare il bis del Ponte sullo stretto di Messina moltiplicato all’ennesima potenza: dibattiti infiniti, stop and go delle decisioni, spreco di denaro pubblico.
Sull’acqua, invece, voto due volte no perché non mi convince il trucco demagogico dei due referendum. La proprietà di un bene comune essenziale non è infatti in discussione: nessuno può pensare di privatizzare l’acqua. La legge piuttosto prevede che la gestione del servizio di distribuzione e di depurazione dell’acqua, come la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti e il trasporto locale debbano essere affidati in concessione, attraverso delle gare, a società che possono essere pubbliche o private. Quindi parlare di “svendita” dell’acqua sulla pelle dei cittadini è semplicemente una bugia. La cosa vera, invece, è che oggi quasi la metà dell’acqua che circola nella nostra rete idrica viene dispersa e 10 milioni di italiani non hanno un regolare rifornimento idrico. Questo è lo scandalo, altro che l’acqua ai privati. Per rimediare a uno spreco così diffuso servono investimenti ingenti, almeno 100 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, che sicuramente non possono arrivare dalle casse dei comuni o dal bilancio dello Stato. E qui servono i privati che, però, non è detto che funzionino meglio del pubblico, secondo uno schema ideologico da rifiutare. Anzi. Abbiamo alcuni esempi, nella recente storia italiana che ci dicono proprio il contrario: laddove i privati sono entrati nella gestione di grandi reti infrastrutturali, penso alle autostrade o agli aeroporti, sono crollati investimenti e manutenzione, a danno degli utenti. Così come non esiste alcuna equazione matematica in base alla quale l’acqua costa meno se il suo servizio di gestione è nelle mani pubbliche: semmai i soliti morosi hanno più facilità a non pagare le bollette quando ad incassarle è un’amministrazione pubblica con le sue inefficienze croniche. Come si esce dall’imbuto? La legge prevede un equilibrio ragionevole, la sana concorrenza tra soggetti pubblici e privati, ma ancora non è entrato a regime un tassello decisivo per completare il quadro di garanzie a favore dei cittadini: l’Autorità sull’acqua. Soltanto da un’istituzione indipendente e autorevole, possibilmente non sottoposta ai ricatti della politica e alle pressioni delle lobby del settore, possiamo aspettarci un ragionevole controllo sulle tariffe e sugli investimenti. Qui si gioca la partita, e non sul crinale di schemi ideologici.
Infine il legittimo impedimento: voto no perché la legge è già stata integrata e corretta. E’ giusto consentire a un capo del governo di rinviare la sua presenza in aula di fronte a impegni istituzionali, ma è sbagliato creare aree di impunità che alimentano soltanto l’indignazione dei cittadini. Quindi: se ci sono le condizioni un capo del governo può assentarsi da un processo, altrimenti deve presentarsi in aula e rispondere ai giudici. Ed a decidere sono gli stessi magistrati: lo prevede la legge. Perché, dunque, abrogarla? Ho la sensazione che su questi referendum pesi un altro, evidente fattore di inquinamento: l’idea cioè dell’opposizione di approfittare di questo voto per dare una spallata al governo. E’ una suggestione sbagliata e impropria. Se Silvio Berlusconi deve andare a casa, bisognerà costringerlo attraverso un responso elettorale e non truccando le carte su temi essenziali e delicati, come quelli dell’energia e dei servizi idrici.
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